2003 | U.S.A.
Devo aver letto da qualche parte che la differenza tra una vita ed una sceneggiatura è che solo la seconda deve avere un senso.
Assistendo alla proiezione di Tarnation, che è una sorta di documentario sulla vera vita di Jonathan Caouette e della sua sfortunatissima madre, si ha una chiara conferma di questo assunto.
Il film è incredibilmente reale, nel senso che è un collage di riprese familiari, che partono dalla notizia vera che la madre di Jonathan (il regista) Renée ha assunto un’overdose di litio.
Renée era affetta da sempre da disturbi psichici, in conseguenza degli elettroshock subiti da giovane, a seguito di una paralisi sopraggiunta come conseguenza di una caduta dal terzo piano della casa dove viveva.
Da tale drammatico evento parte il film, che ripercorre a ritroso la vera vita di Jhonatan, il suo rapporto con la madre e con la sua stessa vita, ma anche la sua omosessualità e la sua sofferenza psichica.
Due vite, quella di Jonathan e di sua madre, segnate da eventi che è eufemistico definire drammatici.
La sofferenza umana è impressa in ogni fotogramma, con una tale crudezza e spietatezza nelle immagini, che il termine realismo non trasferisce appieno il senso dell’opera.
Il realismo tenta, infatti, di riprodurre il vero, Tarnation è il vero.
Quello che credo abbia, alla fine, apprezzato di più sia stato proprio lo stile filmico.
Un trip, ecco il termine che più si avvicina al senso dell’opera.
Un film che entra all’interno dei meccanismi patologici di una mente disturbata.
Immagini frammentate, assi temporali sconclusionate, che rendono estremamente arduo qualsiasi processo d’infralettura narrativa.
Un eccesso di informazioni biografiche, scritte al centro di campi in nero, cercano, nell’intenzione dell’autore, di dare, probabilmente, un senso narrativo alla sua vita che viceversa arriva, indipendentemente da ciò, per quello che è, senza pudori, intimità, segreti.
Mi è difficile esprimere un giudizio di valore artistico di fronte a una tale dose di sofferenza.
Ma se il dolore è l’anima dell’arte, allora dovremmo ammettere di esserci trovati di fronte, ieri sera, all’essenza di tale anima, dal momento che non abbiamo assistito ad altro se non dolore.
Non credo nemmeno che abbia senso narrare la trama, giacché la vita non si pone alcun problema di struttura narrativa.
Né tanto meno se lo pone, alla fine, Jonathan Caouette. Che forse utilizza la macchina da presa più nel disperato e sofferto tentativo di distrarsi da se e dal suo indicibile dolore, che per narrare.
Però il blob d’immagini arriva. Commuove. In sala ho perfino sentito ridere. Forse il bisogno, di qualcuno, di esorcizzare i fantasmi delle vite segnate dal male psichico.
Riflettere sul significato della sofferenza umana è, infondo, un argomento quanto mai attuale anche oggi, in un mondo così pieno degli orrori delle guerre da farci dimenticare che si soffre anche a due passi da noi, magari per problemi come quelli che Jonathan Caouette si è trovato, suo malgrado, ad affrontare.