Il soggetto che parla qui (alias Rob.) deve riconoscere una cosa.
Gli piace uscire da una sala cinematografica.
Ritrovandosi nella strada illuminata, e quasi deserta (ci va, di solito, di sera preferendo, quasi sempre, il durante la settimana) e dirigendosi mollemente verso qualche pub, o ristorante, o caffè, cammina in silenzio, (non gli piace parlare subito del film che ha appena visto), un po’ intorpidito, goffo, infreddolito – insomma assonato: insomma ha sonno, ecco a che cosa pensa.
Nel suo corpo si è diffuso un senso di torpore, di dolcezza, di calma: languido come un gatto addormentato, si sente un po’ disarticolato, o meglio (perché per un’organizzazione morale il riposo non può consentire che in questo), irresponsabile.
In breve, è evidente, esce in uno stato di ipnosi.
E dell’ipnosi (vecchia arma psicanalitica, che la psicanalisi sembra ormai trattare con condiscendenza) ciò che percepisce è il più antico dei poteri: quello di guarire.
Dal cinema si esce spesso proprio così.
Come vi si entra?
Fatta eccezione per il caso, a dire il vero sempre più frequente, di una ricerca culturale ben precisa (film scelto, voluto, cercato, oggetto di una vera e propria vigilanza preliminare), si va al cinema approfittando di un momento di ozio, di disponibilità, di vacanza.
Tutto si svolge come se, ancora prima di entrare nella sala, si sommassero le condizioni classiche dell’ipnosi:
- vuoto
- ozio
- disimpegno
non è davanti al film, o a causa del film che si sogna.
Quasi inconsapevolmente si sogna ancor prima di diventare spettatori.
C’è in pratica una “situazione del cinema“, e tale situazione è “pre-ipnotica“.
Per citare una metonimia che risponde al vero, il “nero della sala” è prefigurato dalla “fantasticheria crepuscolare” (preliminare all’ipnosi secondo Breur e Freud) che precede al nero e conduce il soggetto, di strada in strada, di blog in blog, di manifesto in manifesto, ad inabissarsi infine in un cubo scuro, anonimo, indifferente, dove deve prodursi quel festival di affetti che sono, siamo soliti chiamare film.
§§§
Ma che cosa vuol dire il nero del cinema (non posso mai, parlando di cinema, impedirmi di pensare “sala” più che “film“).
Il nero non è soltanto la sostanza stessa della fantasticheria (nel senso pre-ipnotico del termine).
E’ anche (e soprattutto oserei dire), il colore di un erotismo diffuso.
Grazie alla sua considerazione umana, alla sua assenza di mondanità (contraria all'”apparire” culturale di ogni sala teatro), all’affossamento delle posizioni (quanti spettatori al cinema, me compreso, si lasciano scivolare nella loro poltrona come in un letto, con il cappotto ancora indosso, o con i piedi appoggiati al sedile anteriore, laddove ciò è ancora possibile), la sala cinematografica, di tipo comune, è un luogo di disponibilità, ed è la disponibilità, l’ozio dei corpi, a definire meglio l’erotismo moderno, non quello della pubblicità, o dei video porno su internet, ma piuttosto quello della grande città, quello dei non luoghi, quello delle metropolitane affollate o degli autobus.
E’ in questo nero urbano che si esercita la libertà del corpo, quel lavorio incredibile, e invisibile degli affetti possibili, che trae origine da quello che si può considerare un vero e proprio “bozzolo cinematografico“.
Chi, infatti più dello spettatore di cinema, potrebbe fare suo il motto del baco da seta:
“Inclusum labor illustrat“. (“E’ perché sono rinchiuso che lavoro e risplendo di tutto il mio desiderio”).
In questo nero del cinema (nero anonimo, popolato, numeroso: oh la noia, la frustrazione, delle proiezioni cosiddette private, eccettuate quelle nel terrazzo di E.A. e signora !!!), risiede il fascino stesso del film (e aggiungo: qualunque esso sia, ovvio).
Ricordate l’esperienza opposta: alla televisione che proietta anch’essa dei film, quel fascino ipnotico è del tutto assente !
E non è solo questione della sproporzione tra schermo e spettatore, che inverte le proporzioni degli esistenti cinematografici con quelli dei fruitori del film mediato dal video (fattore, invero, già invalidante la pre-ipnosi dell’immagine).
E’ dal nero cancellato, dall’anonimato rimosso, dallo spazio familiare, articolato (dai mobili, dagli oggetti ben noti) dall’addomesticato erotismo, – diciamo meglio per farne comprendere la levità: che deriva l’incompiutezza dell’erotizzazione – del luogo precluso: dalla televisione siamo condannati alla famiglia, di cui essa è divenuta lo strumento domestico, come diceva Arbore, sostituendo il focolare, con la sua grande pentola comune.
Ma tornando al nero del cinema … come separarlo dal cono di luce che lo fende?
Quel cono danzante che perfora il nero come un atavico e ancestrale raggio laser.
Un raggio magico che si converte in funzione delle sue innumerevoli particelle in figure cangianti.
Giriamo il volto verso il contro-valore di una di una vibrazione brillante, il cui getto imperioso rasenta la nostra testa, la sfiora, di spalle, di sbieco, una capigliatura, un volto. Come nei vecchi esperimenti d’ipnotismo,
Siamo affascinati senza vederlo in faccia, da questo spazio brillante, immobile, e danzante.
§§§
Tutto accade come se un lungo stelo di luce delineasse i contorni di una sorta di serratura, e tutti noi, attoniti, guardassimo attraverso il buco, complici di questa trasgressione postmoderna, che cosa?
L’immagine filmica, compreso quindi il suono, cos’è?
Un’illusione.
Questa parola va intesa, però, in senso ed in una accezione analitica.
Sono chiuso con l’immagine come se fossi compreso nella celeberrima relazione duale che fonda e da origine all’immaginario.
L’immagine è lì, davanti a me, per me: coalescente (significante e significato ben fusi insieme), analogica, globale, pregnante.
E’, insomma, l’illusione perfetta: mi precipito su di essa come un “animale” sul pezzo di stoffa somigliante che gli tendo.
Ciò di cui mi servo, e chiudo, per prendere essere parte dell’immagine ed, al tempo stesso, per essere libero nel nero del cinema, di prenderne cautamente, inconsciamente, lentamente ma necessariamente, le distanze.
Ecco in fin dei conti ciò che mi affascina: sono ipnotizzato, come in tutte le cose della mia vita, da una distanza.
E tale distanza non è critica (intellettuale) è, per così dire, una distanza amorosamente necessaria, dovuta, quella della separazione tra me e lo schermo (come tra me e l’amore, tra me e la mia definitiva e completa realizzazione), che esiste solo nel nero del cinema al cinema (e considerando il termine nella sua accezione etimologica) un godimento possibile della discrezione? O piuttosto una scusa per annullarmi, ancora una volta, nell’ennesima catartica proiezione, dolcemente e leopardianamente, in questo nero?
Capisco le sensazioni che descrivi, perchè anche a me capitano, ma soltanto se il film mi prende, se il film non mi piace, oppure se mi spaventa troppo, o se è troppo stupido, non mi abbandono, non mi rilasso.
Evito, infatti, i film violenti, quelli di guerra, ed il genere horror. Non amo troppo, in generale, gli effetti speciali … una volta finita la loro girandola … cosa rimane? Poco e tanto … nel cinema europeo compreso.
Guardo, invece, i film del nuovo cinema italiano, trovo che stiano migliorando, e quelli del mitico Woody Allen.
Insomma non sono una divoratrice di film!!
Daniela
@Daniela Non so, te lo dico sinceramente, quanto abbia, in verità, colto, nel profondo, quello che intendevo esprimere e condividere con questo post. In effetti non era nelle mie intenzioni parlare, ad esempio, dei miei gusti di generi o delle ontologie del cinema che preferisco (e che pure, peraltro, esistono, intendiamoci).
In realtà provavo a riferirmi, più in generale, ed in senso molto ampio, ad una condizione mentale che mi attraversa ogni volta che vado al cinema. Cinema intesa come sala, come luogo sacralmente dedicato alla visione delle pellicole. Ogni volta capisci? Non importa se il film mi piaccia oppure no.
Anche se, e mi ripeto, sempre più cerco di guardare un certo cinema, come credo che chi legge questo blog abbia, ormai, capito.
Ti ringrazio lo stesso, comunque, di questa tua esigenza di comunicare, è sempre bello suscitare negli altri questo bisogno.
Non tutto il cinema italiano migliora, però, a mio avviso (anzi), tanto per risponderti nel merito, ed, in alcuni casi, gli effetti speciali rimangono (ahimè) la cosa migliore di un film.
Il Cinema bisognerebbe guardarlo tutto, senza pregiudizi, e senza riserve mentali. Magari anche solo per poter confermare le nostre affinità elettive verso certi film e non verso altri, ma la sorpresa è sempre dietro l’angolo, credimi. E guai se così non fosse, peraltro.
Con stima.
Rob.
@Mauro … INLAND EMPIRE c’entra molto di striscio ;)
Ben tornato e non sparire di nuovo.
Rob.
Accidenti che articolo!!! Scusa se è da secoli che non commento più (leggere ahimé a volte…), ma il tempo è risicatissimo da molti mesi. Il mio blog ne è testimone…
Comunque questo l’ho stampato. Bello.
E poi quando si parla di INLAND EMPIRE resto sempre senza fiato! ;)
yours
MAURO
@honeyboy Ho pensato … perché parlare solo di film?
E poi volevo spiegare ad un mio amico, che sostiene che dovrei cambiare i colori del mio blog, perché, invece, personalmente, ritengo il nero il colore del cinema.
Un saluto.
Rob.
davvero molto molto interessante