Italia – 2009
analisi di eventi, esistenti e linguaggio audiovisivo
Voci dal buio
regia: Giuseppe Carrisi
collaborazione artistica ed alla sceneggiatura: Francesco Niccolini
montaggio: Domenico De Orsi
produzione: Provincia di Pisa
produzione esecutiva: Vid Production
durata: 41 minuti
Trama: Da Barra a Goma. Dalla periferia di Napoli alla Repubblica Democratica del Congo. Il documentario di Giuseppe Carrisi, “Voci dal buio”, racconta, incrociandole, storie di ragazzi della camorra e di bambini congolesi che vivono nella guerra, nella povertà, nella violenza. Anche se geograficamente lontane, queste due realtà hanno un comune denominatore: i bambini sono vittime designate di una logica perversa che nega e calpesta sistematicamente i loro diritti. Da una parte la Repubblica Democratica del Congo, con il suo “esercito” di bambini soldato, di piccoli sfruttati nei lavori pesanti, abbandonati, vittime della fame e delle malattie; di bambine abusate, di minori accusati di atti di “stregoneria” o rinchiusi nelle carceri; dall’altra, un quartiere del capoluogo campano dove esiste un “esercito” simile, composto di piccoli soldati, anche se non è ugualmente visibile: quello delle giovani “leve” delle cosche criminali che dettano legge in tutta la zona. Un destino segnato dalla necessità di sopravvivere in un paese marchiato da atroci conflitti, guerre, e dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza dove i bambini sono costretti a combattere ogni giorno, da un lato, e, dall’altro un destino ugualmente marcato a fuoco dalla nascita, ma dove la scelta di “combattere” è molto diversa: si sceglie un “ideale“, uno “stile di vita” per raggiungere un potere ben preciso e stabilito dalla camorra: il miraggio della ricchezza, dei soldi facili. In Congo non c’è scelta, perché si viene arruolati e basta, si finisce in miniera, per strada, si è costretti a lottare per sopravvivere. Insomma a Barra come a Goma, le vite dei bambini vengono buttate via come se non avessero alcun valore. Obiettivo del progetto è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, alla vigilia della ricorrenza del 2o° Anniversario della Convenzione Internazionale, stipulata a New York il 20 novembre 1989, e del 10° Anniversario della Convenzione numero 182 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sulle forme peggiori di lavoro minorile.
Cronache di un’infanzia negata – a cura di Roberto Bernabò
“Anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti”
Fabrizio de Andrè – Canzone del maggio
1. Introduzione – un incipit dedicato agli occhi
Voglio partire degli occhi.
Perché, a riflettere bene, sono proprio gli occhi, il fulcro pregnante di questo straordinario documentario del mio, caro, amico Giuseppe Carrisi.
Da un lato l’occhio dietro la cinepresa del documentarista.
Un occhio coraggioso ed imprudente, che cerca la verità, che la scava, l’assimila, la comprende, la penetra, e la restituisce pura, scevra di prese di posizione, d’interpretazione, di manipolazione, libera da pregiudizi, ed affrancata dalla convenienza di chi sa, ma preferisce tacere.
Una verità assoluta, pronta per i nostri, di occhi, che rimangono, pur sempre, la principale fonte della nostra conoscenza.
Affinché noi crediamo perché vediamo, come amo dire, … ah se solo il medium televisivo si riappropriasse di questo assunto, non è vero Claudio Messora?
Dall’altra gli altri occhi del documentario, quelli innocenti, dei ragazzi protagonisti dell’inchiesta.
Occhi, anche questi, carichi di purezza ed al tempo stesso inondati, sommersi, infangati, loro malgrado ahimè, d’impurità.
Occhi impavidi ed impauriti al tempo stesso, dolci, vinti, smarriti, coraggiosi, spavaldi persino, ma di quella spavalderia figlia dell’ingenuità, tipica dell’ignoranza.
Che, insomma, ti scavano nell’anima, che parlano al tuo personale senso di responsabilità civile, fino a farti sentire in colpa.
Perché si, è vero, quegli occhi così giovani, ma già così adulti, sembrano urlarti che potremmo, … dovremmo … tutti, impegnarci, in prima persona, di più, … molto, molto, molto, di più.
Tutti, nessuno escluso, persino tu che sei capitato qui per caso, che stai leggendo questo post, e che non hai nemmeno visto questo film, e che, forse, non lo vedrai mai, lo sai.
Che si, è proprio come cantava Fabrizio de Andrè nella celebre sua ballata “Canzone del maggio“: “Anche se voi vi credete assolti siete per sempre coinvolti“.
Questo ci tengo a dirlo, perché se un documentario non provoca questa reazione, allora vuole dire che ha fallito.
E questo “Voci dal buio” – di Giuseppe Carrisi (mai titolo fu più indovinato), invece, non solo non fallisce, ma coglie proprio nel segno.
Cerchiamo di capire perché.
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2. Circa gli aspetti formali – le riprese: l’occhio nella bocca e la bocca nell’occhio
Anche se, a mio modo di vedere, l’aspetto che ho maggiormente apprezzato di questo film, è il montaggio, sia quello del materiale girato, che quello del sonoro, ma ne parleremo dopo, è pure vero che, per realizzare un buon documentario, è necessario disporre di molto materiale. E, aggiungo, … che deve essere stato realizzato bene.
E qui si arriva ad uno dei segreti del film.
Giuseppe ha girato, per ben quindici giorni, in Congo, a Goma, e per circa quattro a Barra, uno dei quartieri più degradati e malavitosi della zona Est di Napoli, la mia città.
Complessivamente oltre trenta ore di riprese, tra le due location.
Trenta ore pericolose.
Per tanti motivi.
Decidere di partire per il Congo, il giorno dopo avere ricevuto un’intimidazione, non è da tutti, ma queste cose sono normali nella realizzazione di un progetto come questo.
Girare a Barra – dove persino i Vigili Urbani e la Polizia, non solo non entrano, ma vi sconsigliano di farlo anche voi – non è cosa facile, vi assicuro, soprattutto se il materiale che avete intenzione di catturare con la cinepresa riguarda la Camorra.
Ma aldilà delle difficoltà, che sono, come dire, elemento fondante del cinema documentarista, (cosa sarebbe un documentarista che non rischiasse?), quello che mi preme fare comprendere è che lo specifico filmico di Carrisi, in questa sua opera, è davvero molto particolare.
Innanzitutto, nonostante le condizioni precarie, le riprese, girate in digitale e riversate in pellicola per le sale, sono tutte molto ben realizzate, anche se il set era, ovviamente, privo di particolari ausili formali. Ed anche se, le stesse, sono, spesso, ottenute con macchina in movimento. O con carenti condizioni d’illuminazione.
Le inquadrature di raccordo sono, tutte, molto suggestive, il Vesuvio più volte ripreso da Barra, ad esempio, ha dei richiami spettrali di notevole pregio.
Così come la direzione della fotografia che, vi assicuro, è gestita, considerati i contesti, con notevole maestria.
Così come, pure, le sovrapposizioni dei due diversi, eppure, tristemente simili, degradi degli ambienti sociali in cui si svolgono gli eventi, oggetto della documentazione.
I primi e primissimi piani, i dettagli degli occhi e delle bocche dei ragazzi, ma anche delle loro mani, costituiscono un suggello innovativo ed interessante proprio, a riflettere bene, dell’intenzione documentarista della pellicola.
Questi organi, poi, in particolare: la bocca e gli occhi, non costituiscono, infondo, l’essenza stessa del cinema, e, ancora di più, di quello documentarista?
E non è il documentario, un resoconto, la raccolta di una testimonianza?
E la testimonianza non è forse, a sua volta, oculare ed orale?
Insomma, non saprei dire se ti rimangono impresse di più le immagini, che parlano con una sapienza ed un uso eccellente del mezzo, o il racconto dei ragazzi, che si compone gradualmente, come una sorta di puzzle visivo ed emozionale, nella mente e nel cuore di te spettatore, fino ad allora, quasi, ignaro, che vieni invaso dal senso di Pietas, che alberga nell’animo sensibile di Giuseppe.
Che, peraltro, era seduto accanto a me durante la proiezione.
Non è, al dunque, in conclusione di questo paragrafo, un documentario, un alchemico bilanciamento dell’occhio nella bocca e della bocca nell’occhio?
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3. Circa gli aspetti formali – il montaggio del girato – sovrapposizione ad incastro perfetta ed induttiva
Una delle cose che, vi assicuro, vi rimarrà maggiormente impressa, se assisterete, come me, ad una proiezione di questa bellissima opera di Giuseppe Carrisi, è proprio l‘accuratezza, quasi spasmodica, del montaggio del girato.
Un’accuratezza che si rivela e che si svela nei contrappunti e nelle sovrapposizioni delle testimonianze dei ragazzi di Goma con quelle dei ragazzi di Barra.
Realizzate spesso senza stacchi.
Montate selezionando ed accostando sequenze che li raffigurano ripresi nello stesso lato dello schermo, o dall’altro, quasi a fare capire che si, le loro storie sono diverse, ma sono infondo anche uguali. Come se rappresentassero, insomma, un unico continuum filmico e narrativo, che esprimono, un po’, la cifra distintiva dell’opera.
Perché, a guardare bene dentro i racconti, alla fine, convergenti risulteranno essere i temi inerenti:
- la costrizione all’uso delle armi,
- il dovere decretare la morte di altri,
- il dovere fare uso di sostanze stupefacenti, persino.
Ed analoghe, ahimè, risulteranno, le dilaniazioni emotive nelle menti di questi giovani, il senso di abbandono che queste vite si trovano a percepire.
Quasi come se, in una sorta di cinema induttivo, Giuseppe avesse la capacità di condurci dal particolare all’universale.
Una prospettiva che aggiunge, all’indiscutibile valenza documentativa dell’opera, un filtro che, senza minimamente prendere posizione, abilita, però, riflessioni assai più trascendenti, rispetto alle verità raccontate dagli eventi, per il tramite degli esistenti, tutti rigorosamente veri.
Geniale ed innovativo al tempo stesso credo, non vi pare?
3.1. La filastrocca del pifferaio
In questo sapiente montaggio, c’è un altro elemento che contribuisce al raggiungimento di questo risultato emotivo, ed è la bellissima filastrocca di Francesco Niccolini, liberamente ispirata al Pifferaio Magico dei fratelli Grimm.
Un uomo che, apparso quasi per magia in un paese infestato dai ratti, dapprima cerca di salvare da tale piaga i suoi abitanti, con l’ausilio della musica del suo piffero, ma che poi, al mancato pagamento della sua prestazione, da parte degli adulti, finisce, invece, per vendicarsi proprio sui bambini.
Altra installazione sulla quale, e non poco, riflettere.
Perché è, infondo, proprio in questo gioco cadenzato di elementi che variano il ritmo di una cronaca, altrimenti, forse, davvero eccessivamente pesante, l’attentissima composizione del materiale montato, tema a me caro, che, come dire, distilla i quarantuno minuti dalle oltre trenta ore di girato.
Il tutto, bilanciando equamente, il materiale di Barra, con quello, molto interessante, girato nel carcere minorile di Nisida, a quello, probabilmente assai più copioso, girato a Goma, nel Congo.
Una cosa ci tengo a dirla da napoletano.
La struggente poesia con la quale Giuseppe ha raccolto alcuni degli esterni di Nisida e del “Carcere e mare“, come cantava una bellissima ballata del film “Scugnizzi” (1989) di Nanni Loy, che non posso non citare, unitamente a Baby gang (1992) di Salvatore Piscicelli.
3.2. L’intervista a Ferdinand Benge Luengo
A dire il vero, per completezza, devo citare, anche, come ulteriore elemento del format del documentario, gli spezzoni di una intervista ad un vecchio congolese: Ferdinand Benge Luego, molto preparato sui temi trattati dal film, che aiuta lo spettatore a contestualizzare, con una notevole dose di chiarezza espositiva, le principali piaghe che affliggono l’infanzia congolese e più in generale quella sudafricana e, ancora più in generale, quella dell’infanzia del Sud del mondo. E non solo.
Ce ne sono altri, in verità, di questi supplementi documentativi, che illustrano, ad esempio, le credenze dei bambini congolesi posseduti dal demonio dalle loro famiglie, incredibilmente amplificate dalla mano di finti stregoni senza scrupoli, che, in realtà, speculano su queste superstizioni, proprio come il pifferaio della filastrocca.
Ma questi elementi aggiuntivi, che, come mi sforzo di spiegare, “spezzano” le testimonianze dei ragazzi, non alterano il senso obiettivo della strategia documentativa che Carrisi propone.
E che cioè siano i fatti a parlare, e non le tesi.
Ecco, vorrei che consideraste, in chiusura di questo paragrafo, che tutta questa fase è durata, a differenza delle riprese, oltre un mese di sala di post-produzione.
Complimenti a Giuseppe, ed al suo giovane montatore Domenico De Orsi, che diretto da lui, si dimostra davvero di notevole spessore.
3.3. Chi è Francesco Niccolini
Francesco Niccolini (Arezzo, 1965), è autore di testi per il teatro e per la TV. Tra gli attori più importanti per i quali ha scritto: Marco Paolini (Il Milione, Parlamento Chimico, Teatro Civico), Massimo Schuster (Mahabharata), Sandro Lombardi, Antonio Catalano.
In questo momento sta lavorando alla ricostruzione della storia di Bagnoli a Napoli.
Collabora con la trasmissione di Rai3 «Report» di Milena Gabanelli.
Giornalista, scrive per «Avvenimenti» e «Diario».
Ha pubblicato alcuni libri, l’ultimo dei quali, Teatro Civico, insieme a Marco Paolini e Andrea Purgatori, uscirà a ottobre per Einaudi.
Ha collaborato a tutti i progetti di Giuseppe Carrisi sui bambini soldato sia cinematografici che teatrali.
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4. Circa gli aspetti formali – il montaggio del sonoro – occhi per sentire: la musicalità delle tracce audio
Più conosco Giuseppe Carrisi, più credo che una delle sue qualità / capacità sia quella d’instaurare rapporti umani profondi e sinceri.
Credo che questa attitudine, nel cinema, e nel mestiere di regista, aiuti, peraltro, non poco.
Credo, anche, che dietro il suo aspetto bonario e sornione, Giuseppe, sia, invece, un uomo ed un professionista estremamente rigoroso.
La combinazione di questi suoi specifici aspetti caratteriali, secondo me, determinano, sul set, ed in post produzione, un clima molto fertile e creativo, intorno a lui, nel momento della realizzazione artistica, e non solo.
Come se lui, quasi senza chiedere, riuscisse a stabilire con i suoi collaboratori un’intesa tale, che poi il risultato che ne deriva … parla da solo.
Un dato, tra i tanti, che Giuseppe, nella cena che è seguita alla proiezione, mi ha comunicato, mi ha molto colpito.
Grazie alle conoscenze che ha in RAI, nonché, ovviamente, alla validità del suo progetto in cui, evidentemente, anche lì, hanno creduto, ha avuto modo di accedere ad una banca dati di oltre centocinquanta brani, da lui ascoltati uno per uno, per poi selezionarli ed inserirli nel contesto del montaggio del sonoro, e che conferiscono, alla narrazione, un’incredibile coerenza tra il commento musicale e la drammaturgia degli eventi.
Credo che, infondo, questa musicalità dell’opera, Giuseppe l’abbia cercata non solo nella selezione dei brani della colonna sonora, ma, anche, nella cura che ha dimostrato di avere nella scelta dei timbri vocali dei doppiatori, nelle rime della filastrocca del pifferaio, quasi come se, alle brutture ed alla crudezza dei racconti e di molte delle immagini, fosse, per lui, necessario ed urgente, contrappuntare ed opporre una sorta di bellezza uditiva.
Perché, per essere chiaro, il documentario porta avanti diverse tracce sonore.
- Quella in lingua originale, lasciata volutamente di sottofondo nel doppiaggio in italiano, nel più puro stile documentarista, nelle sequenze di Goma in Congo.
- Quella in presa diretta realizzata a Barra ed a Nisida.
- Quella della filastrocca liberamente ispirata alla favola del Pifferaio Magico, incastonata nei momenti giusti, durante le due narrazioni, tramite una voce narrante femminile, che è un po’ il filo rosso che lega le due cronache.
- Quella del silenzio di suggello ai cartelli, che compaiono nel montaggio dei girato, e che non sono altro che riflessioni che Giuseppe, in tanti anni di lavoro svolto, con amore per la causa delle infanzie negate, ha elaborato, e che sono parte della strategia di alternare elementi, che, in qualche misura, spezzino la testimonianza, nuda e cruda, degli eventi e degli esistenti, in modo da fornire ulteriori dati sui quali riflettere.
- Quella della colonna sonora, della quale abbiamo già, in qualche misura, argomentato.
4.1. Il doppiaggio e la voce narrante
Due parole le vorrei davvero spendere in favore dei doppiatori.
Spesso noi cineblogger ci scagliamo contro questa categoria, che, bisogna riconoscerlo, a volte letteralmente deturpa le versioni originali di molte opere.
Ma, nel caso di pellicole come queste, dove l’opera di traduzione con le scritte in sovra-impressione risulterebbe complessa, e poco fruibile e chiara, Giuseppe, anche qui, ha selezionato personalmente, ad uno ad uno, i ragazzi, tutti bravissimi, che gli hanno dato una mano in questo lavoro, nel quale arriva, ancora una volta, l’amore con il quale questo progetto è stato realizzato.
Insomma, chi si occupa di montaggio di documentari, lo sa.
Il sonoro è uno degli elementi più importanti dello specifico filmico del linguaggio, non a caso, audio-visivo, di questo genere.
Che, da un lato, deve trasferire la percezione, assoluta, della precarietà della documentazione, girata, spesso, in condizioni, davvero, limite.
Ma che, d’altronde deve essere, però, chiaro, comprensibile, perché è anche e soprattutto attraverso le testimonianze, che la denuncia si compone, ibridandosi e fondendosi con le immagini, e con tutte le altre componenti narrative e documentative dell’opera.
In questa specifica dimensione, che, ad esempio, ho molto apprezzato, anche, nei lavori documentaristici di Alina Marazzi, direi che la pellicola di Carrisi raggiunge una raffinatezza, quasi magica, se è vero che eravamo, davvero, tutti commossi, al termine della proiezione, e se è vero che l’applauso che è partito al termine del film, è stato fatto da tutti con emozionata partecipazione.
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5. Conclusioni – l’amore di Giuseppe per la causa dell’infanzia ed il mondo disordinato
Manca ancora una cosa, in effetti, a questa analisi del film.
E credo sia, alla fine, quella più importante.
E non attiene agli aspetti formali, che, come abbiamo visto, sono tutti assolutamente di spessore, e tutti inerenti le fasi d’ideazione e di realizzazione del film, e nei quali non va taciuta la competente collaborazione di Francesco Niccolini.
Il qualcosa di cui parlo è un qualcosa che deriva da un ambito che è, come dire, antecedente ed al tempo stesso contemporaneo e forse addirittura successivo al film.
E’ l’amore con il quale Giuseppe intende impegnarsi per documentare queste verità.
Un amore che è si più dolce, quando le sequenze ci arrivano dal Congo.
Dove le violenze sono senz’altro più dure, assolute, senza possibilità di appello, quasi come se nel paese, paradossalmente, più ricco del continente Africano, fossero proprio i bambini ed i ragazzi, a saldare il conto più alto alle necessità edoniste ed egoistiche di un mondo, che non è solo quello occidentale, ma è anche quello emergente asiatico e quello cinese in particolare.
Un conto che, forse, con l’avvento di un presidente degli USA afro-americano come Barck Obama, sarà, finalmente, grazie anche ad opere come quella di Giuseppe, portato (è questo il nostro auspicio), ad un grado di visibilità diverso, che potrebbe essere l’inizio di una nuova speranza.
Ma l’amore c’è anche per le storie dei ragazzi di Barra, che solo perché assai più vicine a noi, ci sembrano, forse, meno comprensibili e giustificabili.
Ed immagino che, gli eventuali detrattori di Carrisi, potranno dire che, infondo, la situazione di questi ragazzi è assai diversa rispetto a quella dei bambini congolesi, in quanto questi giovani esponenti delle cosche camorristiche napoletane, sono più responsabili e più indolenti di quelli sudafricani, perché maggiormente consapevoli e maggiormente parti attive e potremmo dire artefici della loro condizione.
E fa quasi rabbia, ammettiamolo, sentirli dire che quando usciranno dal carcere di Nisida probabilmente torneranno a delinquere.
Eppure.
Eppure Giuseppe ferma un fotogramma che mi è rimasto molto impresso.
Uno dei ragazzi di Barra dice:
“Ma a che fare dovremmo studiare ed andare a scuola se poi ci ritroviamo a tornare in questo mondo disordinato.“
Lì per lì mi è sembrata una frase come tante.
Ma poi mi sono soffermato sull’idea che quella era, pur sempre, una di quelle sequenze, che, Giuseppe, aveva salvato dalle oltre trenta ore di girato.
Quella frase, ho riflettuto, è, infondo, il comune denominatore tra le storie congolesi e quelle partenopee.
Un contesto dis-ordinato.
Dove è il suffisso dis, utilizzato, quasi inconsapevolmente, da quel ragazzo, il problema.
Di chi è la vera, definitiva, ed assoluta, responsabilità di quel dis-ordine che, a Goma come a Barra, è probabilmente l’unico responsabile di scelte e di destini così ingiusti e disperati?
Io non ho una risposta definitiva, né posso aggiungere, all’opera di Carrisi, conclusioni che pure, a mio modo di vedere, anche lui propone, con le cifre dei cartelli finali, sullo sfruttamento dei bambini, e sui tanti altri abomini che quelle scritte documentano, sia con riferimento ai bambini Congolesi, che ai ragazzi reclutati dalla Camorra di Barra, quasi un omaggio, inconscio, a “Gomorra” – di Matteo Garrone, ed a “Il Divo ” – di Paolo Sorrentino, ma non vogliamo togliere, troppo, alla sorpresa di chi vedrà il film.
Posso solo sperare, ed augurarmi, che chi, come me, assiste a questo film, raggiunga un grado, non solo di conoscenza, ma, soprattutto, di consapevolezza diverso.
Un grado che … è solo un piccolo passo.
Come un piccolo passo è rappresentato dal fatto che, una struttura come la Warner Bros – Medusa, si sia mossa in favore di questo film.
Non è molto, è vero, dal 7 al 13 agosto, ma, credo, che vada letto, con speranza, il segnale che queste proiezioni, infondo, rappresentano.
Ed è questo l’augurio che faccio a Giuseppe – che porterà questo film, che ha già avuto un notevole successo di critica al Giffoni Film Festival, a rassegne del calibro di quella del Toronto Film Festival, ed a quella del Sundance Film Festival – che tanti altri piccoli passi possano fare raggiungere, a questa piccola grande opera, il successo che merita.
Perchè noi ne siamo certi che questa pellicola meriti riconoscimenti importanti.
E vogliamo chiudere questo post con una promessa.
Torneremo a parlare di questa pellicola, presto.
E non solo per i premi che merita, e che, siamo certi, vincerà, ma, anche, per segnalare altre sue uscite nelle sale italiane. E magari anche per qualche suo passaggio televisivo in RAI.
Perché continuiamo a credere, nonostante tutto, che dovrebbero essere proprio queste, le più importanti destinazioni d’uso del cinema documentarista.
Ricordo a tutti che il film è ancora è ancora in programmazione, nei Warner Village Cinemas, sino a giovedì 13 agosto.
Una precisazione sulle immagini di questo post
Sono tutte catturate al computer durante la visione del trailer. Tranne quelle che raffigurano Giuseppe Carrisi e le locandine, che sono scattate con il mio Iphone 3G.
Quelle originali del film hanno, ovviamente, una qualità considerevolmente superiore. Ma è che io un post senza immagini … proprio non riesco a farlo. Mi scuserà Giuseppe e mi perdonerete pure voi lettori, pertanto, per la loro carente risoluzione.
Alla prossima.
Links
Vai alla pagina del film sul sito Warner Village Cinemas, e controlla in quale sala puoi vedere il film, cliccando qui.
Official Site di Francesco Niccolini: qui.
Sito dell’Associazione onlus Pizzicarms qui.
[…] Mi ha scritto su facebook Domenico De Orsi, il montatore di Voci dal Buio di Giuseppe Carrisi. […]
[…] Se cercavi l’analisi al film di Giuseppe Carrisi, dopo aver letto questo post, clikka qui. […]
Ottima analisi.. mi sembrava di essere in sala con voi. Mi auguro che venga trasmesso su sky al più presto in modo da poter partecipare appieno alle vostre emozioni!
Francesca
@francesca motta Grazie Franci, a presto ;)
Rob.