analisi di eventi, esistenti e linguaggio audiovisivo
L’etica di un gangster – possibili argomentazioni a favore – a cura di Roberto Bernabò
Nemico Pubblico – Public Enemies
titolo originale: Public Enemies
nazione: U.S.A.
anno: 2009
regia: Michael Mann
genere: Drammatico / Gangster
durata: 144 min.
distribuzione: Universal Pictures
cast: J. Depp (John Dillinger) • C. Bale (Melvin Purvis) • M. Cotillard (Billie Frechette) • J. Russo (Walter Dietrich) • D. Wenham (Harry ‘Pete’ Pierpont) • J. Clarke (John ‘Red’ Hamilton) • S. Dorff (Homer Van Meter) • C. Tatum (Pretty Boy Floyd) • R. Cochrane (Agente Carter Baum) • B. Katic (Anna Sage) • E. De Ravin (Barbara Patzke) • B. Crudup (J. Edgar Hoover) • G. Ribisi (Alvin Karpis) • J. Ortiz (Phil D’Andrea) • S. Hatosy (Agente John Madala) • D. Harvey (cliente Steuben Club) • S. Leigh (Helen Gillis) • S. Graham (Baby Face Nelson) • S. Garrett (Tommy Carroll) • S. Lang (Charles Winstead) • M. Craven (Gerry Campbell) • L. Mason (portiere Union Station) • L. Taylor (Sheriff Lillian Holley) • D. Warshofsky (Warden Baker) • L. Sobieski (Polly Hamilton)
sceneggiatura: R. Bennett • M. Mann • A. Biderman
musiche: E. Goldenthal
fotografia: D. Spinotti
montaggio: J. Ford • P. Rubell
Trama: Nessuno poteva fermare Dillinger e la sua banda. Non esisteva prigione dalla quale non riuscisse ad evadere. Il suo carisma e le rocambolesche fughe dalle prigioni lo rendevano interessante agli occhi di tutti – da quelli della sua fidanzata Billie Frechette a quelli del pubblico americano che non aveva simpatia per le banche responsabili di aver fatto precipitare il paese nella depressione. Ma mentre le avventure di Dillinger e della sua banda – che nell’ultimo periodo comprendeva anche due individui sociopatici dal nome Baby Face Nelson e Alvin Karpis – intrigavano i più, Hoover si riproponeva di utilizzare la pubblicità che la cattura del criminale avrebbe potuto generare in suo favore per trasformare il suo “Bureau of Investigation” nel dipartimento di polizia nazionale che è adesso l’FBI. Fece pertanto di Dillinger il primo Nemico Pubblico Numero Uno degli Stati Uniti d’America, mettendogli alle calcagna Purvis, l’affascinante “Clark Gable dell’FBI”.
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“Volevi sapere dov’è, tu stupido piedipiatti?
Gli sei passato accanto a State Street. Ma eri troppo impaurito per guardarti attorno.
Stava vicino al marciapiede in quella Buick nera.”
– Billie Frechette
1. Introduzione: il point of conentration narrativo (molto spoiler)
Mi sono interrogato più volte, dopo la visione in anteprima, in lingua originale della pellicola, su cosa mi avesse veramente colpito di questo bellissimo film.
Ed alla fine sono giunto ad una conclusione solo apparentemente paradossale.
1.1 L’etica del protagonista e la non etica degli antagonisti
Certo parlando di un gangster celeberrimo e pericoloso come John Dillinger, peraltro realmente esistito, il titolo del paragrafo può sembrare un’affermazione forte e persino fuori luogo, anche se è storia che il celeberrimo rapinatore restituì agli americani parte dei proventi delle sue rapine, cosa che controbuì, e non poco, a renderlo celebre ed a farne una sorta di moderno Robin Hood, eppure.
Traggo dal libro “La rapina in banca – Storia. Teoria. Pratica” – a cura di Klaus Schönberger.
Alla fine della sua vita, durata solo 31 anni, era diventato un mito, un eroe popolare, una sorta di Robin Hood dei rapinatori americani all’epoca della Grande Depressione.
E non perché regalasse ai poveri parte del suo bottino: nel corso delle sue rapine si limitava a far sparire qualche cambiale. Dillinger aveva lasciato la scuola e lavorava quando capitava, disertò il servizio militare ed era un grande ammiratore di Jesse James. Bastò questo, e una rapina ai danni di un anziano signore nel 1924, a farlo condannare a 20 anni di reclusione. Si fece trasferire in una prigione del Michigan, dove conobbe Homer van Meter e Harry Pierpont, che lo introdussero nei circoli elitari del carcere, composti da rapinatori d’alta classe che gli svelarono i trucchi della rapina in banca. Il 22 maggio 1933 Dillinger fu rilasciato, non prima di aver promesso ai suoi compagni che li avrebbe tirati fuori.
Nel giugno 1933, in un solo giorno, rapinò con altri complici una banca (al mattino), un drugstore e un supermercato (il pomeriggio). In breve tempo riuscì a mettere insieme la somma necessaria per far evadere i suoi amici, ma fu arrestato poco prima di poter entrare in azione, il 22 settembre 1933. Le armi necessarie all’evasione erano tuttavia già penetrate nel carcere, e il 27 settembre Homer van Meter, Harry Pierpont e altri riuscirono a scappare dalla prigione del Michigan. Il 12 ottobre furono loro stessi a sdebitarsi con Dillinger: lo liberarono, e due giorni dopo dettero inizio a un nuovo ciclo di colpi, tra cui alcuni agguati a stazioni di polizia per procurarsi armi automatiche e giubbotti antiproiettile.
Il 23 ottobre alleggerirono la Central National Bank di Greenclastle, Indiana, di 74.782 dollari. Il governatore dello Stato dell’Ohio chiese allora l’intervento della Guardia nazionale, e la banda fuggì alla volta di Chicago, dove, a metà gennaio del 1934, effettuò un colpo alla National First Bank. Le rapine si svolgevano secondo un piano ricorrente: un membro della banda studiava il posto, in seguito si stabiliva chi sarebbe entrato nella banca, chi si sarebbe occupato di guardare le spalle ai complici e chi avrebbe guidato la macchina su cui fuggire. Una volta nella banca, era in genere Dillinger a chiedere di poter parlare con il direttore, al quale poi comunicava gentilmente che si trattava di una rapina e che avrebbe dovuto consegnargli tutti i soldi depositati in cassaforte. Nel caso in cui il direttore avesse mostrato segni di esitazione, Dillinger avrebbe estratto la pistola. Nel corso della rapina alla National First Bank un palo della banda fu ucciso – l’unica morte di cui Dillinger fu mai ritenuto responsabile.
Il 22 gennaio Dillinger venne nuovamente arrestato e trasferito nel carcere di massima sicurezza di Crown Point, in cui già il 3 marzo prese due persone in ostaggio minacciandole con una pistola di legno che si era costruito da solo, si procurò quindi armi vere e imprigionò 26 dipendenti del carcere, poi rubò un’auto e si dileguò. Dillinger si guadagnò le prime pagine dei giornali, con grande disonore delle autorità. Divenne il “nemico pubblico numero uno” e sulle sue tracce si mise addirittura l’Fbi.
Il 22 luglio 1934, tre settimane dopo la sua ultima rapina, avvenuta a South Bend, Dillinger fu raggiunto alla schiena dalle pallottole di due poliziotti che lo aspettavano all’uscita di un cinema. A tradirlo era stata una donna, allettata dalla ricompensa promessa dalla taglia sulla testa di Dillinger.
Sembra che centinaia di persone, uscendo dal cinema, intinsero i propri fazzoletti nel lago di sangue in cui giaceva il bandito, per portarsi a casa un ricordo di lui. Furono 15.000 le persone che parteciparono al suo funerale e pare che, segretamente, fosse stata preparata per Dillinger una maschera mortuaria. Il bandito aveva conquistato i cuori della gente, e ancora oggi ci si chiede se fosse davvero Dillinger la persona uccisa quella sera. La sua storia può essere ripercorsa a Nashville, nel museo a lui dedicato.
Eppure, dicevo prima dell’inciso sulla vera storia di Dillinger, credo che, per comprendere, bene, quello che muove all’azione un po’ tutti gli esistenti del film, il ricorso all’etica può essere un elemento guida che può fornire una chiave di lettura che agevola la verifica della coerenza dell’impianto narrativo.
1.2 La prospettiva narrativa: la storia vista dalla parte del gangster
Altro elemento che salta subito all’occhio – e che certamente deriva dalle scelte narrative non del regista (o quanto meno non solo), ma dell’autore del romanzo Bryan Burrough, (ed il cui titolo è “Nemico pubblico – il romanzo criminale dell’America degli anni trenta“), di cui il film di Michael Mann rappresenta un’eccellente trasposizione dal letterario al filmico – è la prospettiva narrativa.
Il point of concentration dell’azione non è, infatti, narrare, asetticamente, la storia del rapinatore John Dillinger, ma è di farlo scegliendo il punto di vista del gangster.
(Per la cronaca Bryan Burrough, http://www.bryanburrough.com/, ex reporter del Wall Street Journal, oggi scrive per Vanity Fair. Ha vinto per tre volte il premio Jhon Hancock Award, conferito all’eccellenza nel giornalismo finanziario. E’ autore di numerosi libri, il più recente dei quali è The Big Rich è stato nella top ten dei libri più venduti edita dal New York Times).
Lo spettatore è quasi parte della sua banda.
Vive la lotta senza quartiere a lui, quasi partecipando alle sue azioni, sia criminali, che sentimentali.
E’ come se il regista narrasse il film scegliendo di abbandonare un ruolo di narratore, e delegando, tale compito, direi, se non esclusivamente, quantomeno in maniera prevalente, all’eroe.
Con un’accortezza.
Non riusciamo mai a capire esattamente come farà l’eroe a risolvere, sequenza dopo sequenza, tutti i vari bit narrativi che compongono la storia, che evolve nel classico canovaccio in cui l’esistente protagonista viene, via via, caricato di problemi sempre più grandi, e sempre più difficili da risolvere.
1.3 Il ruolo del Cinema
Il terzo elemento, che non è certamente trascurabile, e che appare allo spettatore cinephìle anche meno accorto, è il ruolo affidato al Cinema.
Ed in particolare al Cinema inteso in una triplice accezione.
- Al Cinema, cioè, che tutti gli spettatori godono assistendo al film.
- Al Cinema inteso, in chiave strettamente metalinguistica, del film nel film.
- Ed al Cinema inteso come sala, come luogo cioè di fruizione del film (non è assolutamente banale questo aspetto per comprendere le sequenze finali). Una sorta di medium ambientale, attraverso il quale è possibile, persino un gangster braccato da schiere di poliziotti, evadere (è il caso, più che mai, di usare questo termine), dalla giogo della propria esistenza, per poi riprenderla, con un diverso grado di consapevolezza, al termine della proiezione.
Quasi come se il Cinema, in tale accezione, fosse il luogo dove guariamo e dove rinasciamo, pronti e ritemprati da nuove Verità, anche le più ferali, e nefaste e definitive.
Una chicca metalinguistica, che, dopo il film di Quentin Tarantino, è come se stesse diventando un po’ una cifra della recente produzione made in USA. Anche se, in questo, caso ampiamente giustificata dalla cronaca degli eventi storici.
E non è un caso notare che nella sequenza che chiude il film, ci sia come una netta contrapposizione tra chi è dentro la sala cinematografica, e chi, invece, attende fuori, eccezion fatta, forse, per la entraneuse immigrata rumena – Anna Sage, la donna che tradirà l’eroe, ma questo non vale per Dillinger, che, in una memorabile sequenza che precede la catartica e drammatica sequenza del cinema, ha modo di comprendere, fino in fondo, in una spericolatissima visita agli uffici della FBI, chi realmente sono stati i suoi fedeli compagni e chi no.
Il post in effetti potrebbe finire qui.
Ma proverò, lo stesso, a sviluppare meglio i tre punti della introduzione.
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2. Circa l’etica del protagonista e la non etica degli antagonisti
La questione nei gangster movie è un po’ sempre la stessa.
Ci sono due fazioni, opposte, facilmente identificabili.
Ci sono i buoni, che normalmente coincidono con i tutori della legge, e ci sono i cattivi, che sono i gangster.
Che rapinano, uccidono, insomma fanno cose esecrande.
E’ difficile però, in genere, empatizzare, in questa ontologia del cinema, fino in fondo, e sin dalle primissime sequenze, con i cattivi, e, soprattutto, con il loro leader.
Anzi, se dovessi pensare agli ultimi film italiani come “Gomorra” di Matteo Garrone, ad esempio, dovrei ammettere, semmai, che l’obiettivo della narrazione è esattamente l’opposto.
C’è da chiedersi allora: “Perché il romanzo prima, ed il film dopo, tentano, invece, di mitizzare le gesta di John Dillinger?“
In realtà sappiamo che, quanto meno al cinema, è possibile fare praticamente tutto.
E non credo nemmeno, peraltro, che questo sia, in assoluto, il primo film in cui ciò accade.
Ma la cosa mi appare chiara se si mette al centro un altro tema.
Un tema con con cui la suddivisione buoni – cattivi, forse, c’entra poco.
E’ un tema morale e quasi filosofico.
Quello dell’etica.
E, lo dobbiamo proprio ammettere, di etica ultimamente in giro, e non solo in Italia, se ne vede pochina in giro, non credete?
Se guardiamo le azioni del protagonista, e quelle del suo antagonista Melvin Purvis, incaricato dall’ancora più arrivista e determinato J. Edgar Hoover, interpretati rispettivamente, più che convenientemente, dal bravissimo Christian Bale, e da Billy Crudup, noteremo un classico dei film del regista “narrare le gesta di uomini costretti ad agire in condizioni estreme“.
E’ questo che riesce a fare fruire di un fiato una pellicola di ben 140 minuti.
E sarà, proprio, la diversa prospettiva etica, a farci sentire vicini al gangster.
Va aggiunto che il contesto della storia è l’America della Grande Depressione degli anni ’30 (toh, guarda, chissà perchè mi vengono alla mente i corsi ed i ricorsi storici di Giambattista Vico), e che Dillinger è una gangster assai più astuto e capace dei poliziotti che sono costretti a contrastarlo, che fa una cosa ed una sola:
rapina banche !!!
Proprio quelle banche che, anche nel 1930, furono tra le maggiori responsabili della povertà degli americani. Ma tu guarda.
E’ proprio vero … non s’impara mai abbastanza dai propri errori.
Detto questo è evidente perché il popolo americano, dell’epoca, ed uno scrittore, con vocazioni giornalistiche finanziarie, contemporaneo, ne mitizzano le gesta.
Perché, in quel contesto, Dillinger diventò davvero un eroe popolare, che seppe sfruttare le incapacità di un sistema difensivo poco connesso tra stato e stato, degli USA, e che ebbe, peraltro, il merito (direi suo malgrado), di provocare probabilmente la prima grande e strutturata lotta al crimine degli USA.
E quelli mica sono come noi.
Quando decidono di fare una cosa, la mettono in mano a persone competenti.
Competenti e, spesso, senza scrupoli.
E se un gangster è senza scrupoli, per definizione, i tutori dell’ordine dovrebbero essere, invece, animati non da bramosie di successo personale, ma da un elevatissimo spirito di servizio, agito solo ed esclusivamente in favore della collettività.
Ed è proprio su questo piano, che il rapporto protagonista – antagonista, tra Dillinger e Melvin Purvis, si ibrida.
Chi è il buono e chi il cattivo?
Chi è che si preoccupa, realmente, della sorte dei suoi uomini, e della sua innamorata?
Queste domande trovano, tutte, risposte nell’azione del film, ed è, pertanto, pleonastico che io risponda.
Il Potere, e noi in Italia, ahimè, lo sappiamo sin troppo bene, quando deve raggiungere un obiettivo, non conosce regole, e chi meglio di noi, oggi, ad oltre un secolo dagli eventi narrati dal film, può comprenderlo meglio?
Una sequenza però ci parla dell’etica anche tra gli antagonisti tutori dell’ordine.
E’ il poliziotto, umile ma sagace, che studia, realmente, lui si, e con lealtà, il suo avversario, sino alle estreme conseguenze.
Divertitevi a scoprirlo tra la compagine dell’FBI, ed apprezzatene anche il gesto altamente morale di cui è capace nella sequenza che chiude il film.
Sequenza che fa, peraltro, da suggello all’altro ambito di sviluppo della trama: la romanticissima love story tra John Dillinger e Billie Frechette, interpretata, direi magnificamente, dal premio Oscar Marion Cotillard (migliore attrice protagonista per il film “La vie en rose” – 2007 – di Olivier Dahan, nel quale interpretò niente meno che Édith Piaf, e fortemente voluta per la parte dal regista).
3. Circa il ruolo del Cinema
In primo luogo il cinema come potente strumento evocativo e ri-evocativo di un’epoca.
Quella della Grande Depressione.
Tutto in questa produzione è meticoloso.
Basti pensare come ho avuto moto di leggere sulle note di produzione, ai ben 107 set allestiti.
O alla fedeltà, quasi maniacale, nel selezionare tutti luoghi dell’azione.
Le ricostruzioni degli interni e degli esterni.
I costumi.
Alla scelta degli attori, perchè se è vero che Dillinger diventò un mito tra gli americani, è altrettanto vero che Johnny Depp (davvero notevole nel ruolo, secondo me questo film segna un punto di svolta davvero importante nella carriera di questo attore, che, ultimamente, si era, a mio avviso, troppo legato alle saghe dei Pirati, ad esistenti dark, ed a quelli dei film di Tim Burton, devo, in verità, ancora apprezzarlo in Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo – The Imaginarium of Doctor Parnassus, regia di Terry Gilliam – 2009), è nato a soli 160 miglia dalla casa d’infanzia di Dillinger, sita a Mooresville, nell’Indiana.
Es alla suggestiva e notevole colonna sonora.
Ma c’è una cosa che non passa inosservata allo spettatore cinephìle.
Sull’orlo del suo baratro Dillinger fa due cose.
Forse rese ancora più epiche da una probabile forzatura della verità storica.
Si reca in un cinema.
E si fida di una donna che non è quella che ama.
Perché lo fa?
Cosa cercava in un Cinema un uomo ormai disperato?
Che aveva visto morire ad uno ad uno tutti i suoli leali, coraggiosi e fedeli compagni di avventura.
Qui il film ha una interessantissima, almeno per me, deriva metalinguistica.
Da un lato, ancora una volta, riusciamo ad apprezzare la chicca del film nel film (nel caso di specie “Le due strade” – 1934 di W.S. Van Dyke II, titolo sicuramente non scelto a caso in quanto fedele alla ricostruzione in quanto realmente fu la visione della pellicola l’ultima azione del vero Dillinger, con Clarke Gable nella parte di un gangster prossimo alla sua morte. (Traggo dal Morandini: Dopo aver passato insieme l’infanzia in un quartiere popolare di Manhattan, due amici prendono strade diverse: uno diventa magistrato, l’altro delinquente. Il primo condannerà a morte il secondo. Sceneggiato dal giovane Joseph L. Mankiewicz su un racconto di Arthur Caesar che vinse un Oscar, ha un interesse soprattutto storico come archetipo di dramma criminale “made in Hollywood”, ma non manca di qualità intrinseche per il brio degli interpreti e della messinscena. Noto anche perché il nemico pubblico n. 1, John Dillinger, fu ucciso vicino al Biograph Theatre di Chicago subito dopo averlo visto. Esiste in edizione colorizzata. Conosciuto anche come “Le due vie“.)
E dall’altro come non riflettere, e questa volta seriamente, sul ruolo del Cinema come luogo dove assistiamo all’opera cinematografica.
Traggo dal mio pst “Circa il nero del cinema“.
Il soggetto che parla qui (alias Rob.) deve riconoscere una cosa.
Gli piace uscire da una sala cinematografica.
Ritrovandosi nella strada illuminata, e quasi deserta (ci va sempre di sera preferendo, quasi sempre, il durante la settimana) e dirigendosi mollemente verso qualche pub, o ristorante, o caffè, cammina in silenzio, (non gli piace parlare subito del film che ha appena visto), un po’ intorpidito, goffo, infreddolito – insomma assonato: insomma ha sonno, ecco a che cosa pensa.
Nel suo corpo si è diffuso un senso di torpore, di dolcezza, di calma: languido come un gatto addormentato, si sente un po’ disarticolato, o meglio (perché per un’organizzazione morale il riposo non può consentire che in questo), irresponsabile.
In breve, è evidente, esce in uno stato di ipnosi.
E dell’ipnosi (vecchia arma psicanalitica, che la psicanalisi sembra ormai trattare con condiscendenza) ciò che percepisce è il più antico dei poteri: quello di guarire.
Dal cinema si esce spesso proprio così.
Come vi si entra?
Fatta eccezione per il caso, a dire il vero sempre più frequente, di una ricerca culturale ben precisa (film scelto, voluto, cercato, oggetto di una vera e propria vigilanza preliminare), si va al cinema approfittando di un momento di ozio, di disponibilità, di vacanza.
Tutto si svolge come se, ancora prima di entrare nella sala, si sommassero le condizioni classiche dell’ipnosi:
1. vuoto
2. ozio
3. disimpegno
non è davanti al film, o a causa del film che si sogna.
Quasi inconsapevolmente si sogna ancor prima di diventare spettatori.
C’è in pratica una “situazione del cinema“, e tale situazione è “pre-ipnotica“.
Per citare una metonimia che risponde al vero, il “nero della sala” è prefigurato dalla “fantasticheria crepuscolare” (preliminare all’ipnosi secondo Breur e Freud) che precede al nero e conduce il soggetto, di strada in strada, di blog in blog, di manifesto in manifesto, ad inabissarsi infine in un cubo scuro, anonimo, indifferente, dove deve prodursi quel festival di affetti che sono, siamo soliti chiamare film.
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Mi piace pensare che anche Dillinger avesse cercato un’esperienza del genere, per sentirtisi davvero pronto ad affrontare l’epilogo forse più giusto e definitivo, al termine di quella delle due strade che si era scelto, in definitiva, tanto per vivere, che per morire.
Links
Sito Web Ufficiale del Film in italiano: qui.
Film Official Web Site in english: qui.
Voce Wikipedia su Johnny Depp: qui.
Voce Wikipedia su Michael Mann: qui.
Voce Wikipadia su Marion Cotillard: qui.
Voce Wikipedia su Christian Bale: qui.
Voce Wikipedia su Ronan Bennett: qui.
Menzioni Speciali
Una. Per la co-sceneggiatrice Ann Biderman. E’ una scrittrice per il cinema e per la televisione. Riguardo al Cinema la segnalo per “Il senso di Smilla per la neve” un film di genere thriller del 1997, diretto da Bille August, e basato sull’omonimo romanzo (titolo originale in danese: Frøken Smillas fornemmelse for sne) del 1992 scritto da Peter Høeg. Tra gli interpreti principali troviamo Julia Ormond, Gabriel Byrne e Tom Wilkinson.
E per “Schegge di paura” un film thriller del 1996, diretto da Gregory Hoblit e tra gli altri interpretato da Richard Gere, Laura Linney ed Edward Norton.
La sceneggiatura stesa per il film è liberamente basata sul romanzo giallo di William Diehl Primal Fear.
Due. Per la colonna sonora.
Degna di nota è colonna sonora con musiche di Otis Taylor, Elliot Goldenthale e con, soprattutto, la voce struggente voce di Billie Holiday, ascoltate la celeberrima The Man I Love.
Nemico Pubblico – Public Enimies – le tracce musicali
1. Ten Million Slaves – Otis Taylor
2. Chicago Shake – The Bruce Fowler Big Band
3. Drive To Bohemia – Elliot Goldenthal
4. Love Me or Leave Me – Billie Holiday
5. Billie’s Arrest – Elliot Goldenthal
6. Am I Blue? – Billie Holiday
7. Love In The Dunes – Elliot Goldenthal
8. Bye Bye Blackbird – Diana Krall
9. Phone Call To Billie – Elliot Goldenthal
10. Nasty Letter – Otis Taylor
11. Plane To Chicago – Elliot Goldenthal
12. O Guide Me Thou Great Jehova – Indian Bottom Association, Old Regular Baptists
13. Gold Coast Restaurant – Elliot Goldenthal
14. The Man I Love – Billie Holiday
15. JD Dies – Elliot Goldenthal
16. Dark Was The Night, Cold Was The Ground Blind – Willie Johnson
Complimenti, un’analsi precisa ed interessante sia del film che della reale vita del rapinatore Dillinger. Notevoli anche i contenuti extra sul “Film nel Film” e l’analisi del ruolo del protagonista nell’epoca della Grande Depressione americana.
Spero di leggere altri tuoi lavori.
David
@David Ferara Grazie David delle belle cose che mi dici. Comunque di altri miei lavori … ne trovi a iosa in questo blog, ci sono oltre 5 anni e mezzo di lavoro ;)
A presto.
Rob.
Ciao
I wish you would write in English !
@Laleh There is the Google’s tool on the side bar ;-)