Cinemavistodame.com di Roberto Bernabò

Permanent Error | di Pieter Hugo

Foto da una delle più grandi discariche hi-tech in mostra al Museo MAXXI di Roma

Circa l’inutilità delle cose utili (un tempo) – filosofica riflessione sulla tecnologia, ma, anche, sull’uomo che le usa – a cura di Roberto Bernabò

Fino al 12 dicembre

Gli ultimi decenni hanno generato una nuova problematica relativa allo smaltimento dei rifiuti: La e-waste, cioè i rifiuti tecnologici. L’occidente ha risolto la questione inviandone buona parte nei paesi del terzo mondo come merce di seconda mano, in teoria per colmare il divario digitale, facendo artatamente finta di non sapere che, nella str-grande maggioranza dei casi, questi finiscono accatastati in montagne di spazzatura inservibile.


Nella baraccopoli di Agbogbloshie alla periferia di Accra, nel Gahana, c’è una delle discariche hi-tech più grandi del mondo: computer, monitor, e schede madri, ma anche oggetti ancora, per noi, più vintage, come macchine da scrivere o registratori, vengono bruciati per ricavarne rame, ottone, alluminio e zinco, da rivendere producendo residui tossici che contaminano l’aria, l’acqua, la terra. E le persone.

Ad Agbogbloshie è ambientato l’ultimo lavoro del fotografo sud-americano Pieter Hugo (Johannessburg 1976).

A Pieter Hugo, e ad altri della generazione post-apartheid, si deve il merito di avere scardinato le modalità di rappresentazione del continente africano, offrendoci nuovi, e dirompenti punti di vista, rispetto rispetto all’immagine, troppo spesso stereotipata, (ma non per questo meno vera), a cui siamo, purtroppo, tristemente abituati.

Da alcuni anni Hugo porta avanti una sua personalissima ricerca, che prende in esame contesti molto specifici e marginali della realtà africana, interessato non tanto a descriverne le dinamiche politiche o sociali, (che restano, peraltro, evidentemente ed ovviamente implicite), quanto ad indagare la condizione umana di questi soggetti, che, con questi contesti, (loro malgrado), si trovano, di fatto, a fare i conti.

I temi dell’identità, e dell‘appartenenza, sono, dunque, dei cardini attorno ai quali Pieter fa ruotare il suo lavoro, che si traduce, principalmente, anche se non esclusivamente, nella scelta del ritratto.

L’intensità, spesso surreale, delle sue fotografie, deriva, a guardare bene, dalla capacità di trovare un equilibrio tra una serie di contrasti, (in conflitto tra loro), senza, peraltro, alcun tentativo di ricomporli.

Il contrasto è la realtà di quella dimensione.

Così i personaggi ritratti risultano, allo spettatore, allo stesso modo fortivulnerabili.

Ispirano “simpatia” e rispetto, perché riconosciamo, in loro, la grandezza dello spirito umano, che, anche in condizioni estreme, trova il coraggio, e l’orgoglio, di affermare la propria identità.

Sono immagini irresistibilmente attraenti, e, nello stesso tempo, spaventose, sotto più accezioni del termine.

Perché mostrano qualcosa con cui non siamo del tutto in grado di confrontarci.

Talmente “scabrose“, da richiedere un approccio per gradi, come quando, da bambini, ci portavano a vedere un film dell’orrore, e ci proteggevano gli occhi con le mani, lasciando, però, aperto uno spiraglio. Per non farci perdere, completamente, la scena.

Solo il filtro estetico, ottenuto grazie al rigore formale, all’equilibrio della composizione, ed all’uso raffinato e cromatico del colore, permette di edulcorare (quanto meno in parte), l’asprezza della visione.

Ad Agbogbloshie, in un’atmosfera pulviscolare, sospesa tra il bucolico e l’infernale, le figure si aggirano lente, tra falò e cumuli di vestigia informatiche, mentre vacche e buoi pascolano placidi tra i miasmi tossici che esalano dalla terra.

Da colonne di fumo denso, emergono, come apparizioni, i ritratti di Mohammed MusamAbudulai YahyaIbrahim Sulley, e gli altri. Un po’ martiri, un po’ demoni, con le aureole dei fili elettrici, le vsti eccentriche, e gli attributi di santi di cui non riconosciamo l’iconografia, essi mettono in crisi la nostra capacità di definirli compiutamente, e, di conseguenza, di definire a nostra volta noi stessi.

Inquietanti come un punto interrogativo, a cui manca, persino, la domanda.

Uno scenario per certi versi apocalittico, che lancia nel titolo, come se ce ne fosse bisogno, un ulteiore monito:

Permanent error” è, infatti, un’espressione mutuata dal gergo informatico, appunto, che sta ad indicare un: “errore che si verifica quando un settore della memoria di massa viene erroneamente modificato con la sovrascrittura di altri dati e che può essere corretto solo con la formattazione competa del disco e la riscrittura del settore stesso.”

Peccato che il Pianeta Terra non sia ri-formattabile.

N.B. Foto prese da internet.

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