analisi di eventi, esistenti e linguaggio audiovisivo
Italia 2012
Non la Sicilia, non Palermo, ma un film d’impressionistica disperazione e redenzione, all’interno di un contesto mafioso – a cura di Roberto Bernabò
Salvo
titolo originale: Salvo
nazione: Italia
anno: 2012
regia: Fabio Grassadonia • Antonio Piazza
genere: Drammatico / Sentimentale
durata / note: 104 min. / opera prima
distribuzione: Good Films
cast: Saleh Bakri (Salvo) • Sara Serraiocco (Rita) • Luigi Lo Cascio (Enzo Puleo) • Giuditta Perriera (Mimma Puleo) • Mario Pupella (Boss)
sceneggiatura: F. Grassadonia • A. Piazza
fotografia: D. Ciprì
montaggio: D. Rayner
uscita nelle sale: 27 Giugno 2013
Award vinti: Grand Prix Semaine de la Critique – Fabio Grassadonia e Antonio Piazza | Prix France 4 Discovery Semaine de la Critique – Fabio Grassadonia e Antonio Piazza
Sinossi: Salvo è un killer di mafia, senza radici e senza affetti. Incaricato di eliminare un boss rivale incontra in casa la sorella cieca dell’uomo. Un evento miracoloso e imponderabile spinge Salvo a portarla in un luogo sicuro e a tenerla nascosta a tutti, anche al suo capo. Riuscirà Salvo a cambiare vita, emanciparsi dalla mafia, ed a salvare la vita della giovane donna?
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«Riuscire a “vedere” una prospettiva di vita diversa si può,
forse è questo il vero “miracolo” del film.»
Roberto Bernabò
In questo post:
- Introduzione – circa le critiche ingiuste mosse al film
- Come, invece, le presunte debolezze dell’impianto del film siano, in realtà, i suoi punti di forza
- Il “miracolo” come allegoria salvifica
- Circa le notevoli rese attoriali
- Circa il linguaggio audiovisivo impressionista (spoiler)
- Conclusioni – circa la convincente genialità di un finale ambivalente
1. Introduzione – circa le critiche ingiuste al film
Se vi dovesse capitare di leggere in giro critiche al film “Salvo” di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, sia di utenti che di alcuni critici, a parte un coro unanime che parla di un vero capolavoro, scoprirete, come ho fatto io, che molte altre si focalizzano, essenzialmente, su due presunte carenze dell’opera.
Ricordatevele, perché ci torneremo in questo post.
- La prima: riguarda le atmosfere cupe, asfittiche, scure, forse addirittura carenti sotto il profilo della fotografia. Si insomma un film noioso, poco compiacente con lo spettatore, pesante, e che avrebbe potuto risolversi in molti meno minuti, forse addirittura in un cortometraggio.
- La seconda: riguarda, invece, il fatto che, pur essendo ambientata a Palermo, nella storia narrata nella pellicola di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, né la Sicilia, né Palermo, comparirebbero più di tanto.
In pratica queste persone, che siano critici, o no, poco importa ai fini di quello che sto per dire, non vanno ad una proiezione interessati a capire “il modo d’intendere il cinema” degli autori, tanto meno di due autori esordienti, che affrontano un tema, quello della mafia, in cui sembrava davvero che non si potesse aggiungere più nulla, nello specifico filmico.
La loro critica, cioè, non muove dall’opera degli autori, ma da quello che la loro aspettativa sul film, ha procurato nei loro stati d’animo, in termini di delusione.
Che, per carità, è un punto di vista assolutamente degno di nota, e più che legittimo, peraltro, per uno spettatore, e, forse, anche per un critico, (cosa che, notoriamente, io non sono), in quanto questi, deve bilanciare tante singole, e separate componenti, prima di poter affermare che un’opera filmica è un capolavoro.
Va da sé, però, che non è assolutamente, ed in alcun modo, un punto di osservazione interessante, per gli studiosi dell’evoluzione del linguaggio audiovisivo.
Dico questo perché, se c’è un merito in questo film, (in realtà scopriremo che ce ne sono molti altri, come, ad esempio:
- un impiego sapiente della fotografia,
- un utilizzo interessante del piano-sequenza, elemento formale molto usato dai registi della “nouvelle vague” francese,
- o, ancora, e, forse, soprattutto, il modo inedito con cui i registi fanno un abbondante ricorso ai rumori fuori campo, per creare un’atmosfera specifica nella narrazione degli eventi),
è, infatti, proprio quello di fare delle scelte precise di coerenza tra narrazione e linguaggio, è il caso di dirlo, “audiovisivo“.
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2. Come, invece, le presunte debolezze dell’impianto del film siano, in realtà, i suoi punti di forza
In realtà, ovviamente sempre secondo il personalissimo punto di vista del sottoscritto, potremmo, in qualche modo, ribaltare il ragionamento, per argomentare in favore di questa opera.
Punto per punto, così da non perderci in troppe questioni filologiche o, peggio, filosofiche.
Il “point of concentration” della narrazione dei registi siciliani non è focalizzato su Palermo, sulla Sicilia, o sulla mafia, così come spesso raffigurata nel cinema di genere.
No, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza tentano, con mezzi cinematografici essenziali e minimalisti, ma non per questo privi di maestria, di farci “vedere” la vita dei mafiosi restituendocene una rappresentazione “impressionista“, più che “neorealista“, o “iper-realista“, come il “Gomorra” di Garrone.
Non c’è storia, non c’è narrazione. Non esiste compiacimento.
Il tentativo è quello di scaraventare lo spettatore nell’angoscioso universo asfittico, buio, anche in una dimensione allegorica, della vita dei mafiosi.
Lunghe attese, pochissimi dialoghi.
Ferite che si rimarginano senza interventi di medici.
Pasti consumati in luoghi squallidi. In angusti locali sotterranei.
Impossibilità di vivere un quotidiano luminoso, sereno, altro.
Non esiste alterità nella scelta mafiosa.
La vita è una sorta di espiazione, di costrizione ad un’emarginazione necessaria.
In questa prospettiva, parlare di Palermo, o della Sicilia, non avrebbe alcun senso.
Non sono questi, infatti, gli oggetti della narrazione, tutta filtrata in una chiave simbolica ed allegorica.
Gli obiettivi (quello della macchina da presa, e, quindi, quello narrativo dei registi) non devono, pertanto, orientarsi nel catturare un luogo, quanto piuttosto “l’impressione” di uno stile di vita. Un’ambientazione emotiva, che sia, in qualche misura, lo specchio delle angoscianti ore della vita, della gente di mafia, potente, magari, per qualche anno, ma costretta a vivere nascosta, e continuamente ossessionata dall’idea che qualcuno, prima o poi, la tradirà.
Questo fa sì che la lunghezza del film, deve servire proprio per trasferire nello spettatore, la pesantezza di una simile condizione esistenziale.
A meno che. (Attenzione inizio periodo spoiler)
3. Il “miracolo” come allegoria salvifica
A meno che, nel mentre un mafioso è in azione, non accada qualcosa (di soprannaturale?), che, improvvisamente, apra uno squarcio (è il caso di dirlo) di luce, nella loro vita.
Quando Salvo – Saleh Bakri uccide il fratello di Rita – Sara Serraiocco, ed a questa, proprio in quel momento, ritorna la vista, entrambi gli esistenti vedranno, forse per la prima volta, una possibilità di vita altra.
Possibilità teorica, remota, assai difficile (quasi un sogno) a realizzarsi, ma in realtà, per loro, in quel momento, e da quel momento, l’unica possibile, ed anche l’unica che, dopo questa rivelazione “salvifica”, ha ormai senso vivere, fino alle estreme, ma ormai ineluttabili, conseguenze.
Questo “miracolo” che accade nel momento di massima violenza del film, agisce una sorta di ribaltamento alchemico, di ciò che spinge all’azione Salvo.
Non più la violenza, ma l’amore. Non più la morte, ma la vita.
La vista la riacquista Sara, certo, ma un’altra vista, più interiore, quasi quella di un terzo occhio (quello della coscienza), è quella che pervade, invece, Salvo, e, da quel momento in poi, nulla sarà più come prima, per lui, e, conseguentemente, per tutti gli altri esistenti del film che gli ruotano intorno.
Compresi i suoi ex compagni mafiosi, che, da adesso, diventeranno i suoi più acerrimi nemici, come è giusto che sia, nello svolgersi degli eventi, dopo tale ribaltamento valoriale. (Attenzione fine periodo spoiler)
Non ci sarebbe in verità molto altro da aggiungere, anche se, in verità, molto altro c’è.
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4. Circa le notevoli rese attoriali
Pur essendo un film esordiente gli attori, e soprattutto Sara Serraiocco: Rita, impressionano per le capacità interpretative e le rese dei personaggi.
Dalle scene iniziali in cui Rita è cieca, e durante tutta la sua “guarigione”, Sara colpisce per come rende impressionista, ed, al tempo stesso, convincente, tangendo, quasi lo stilema neorealista (che non è quello utilizzato dai registi), questa trasformazione.
Una trasformazione spirituale che è anche fisica, ed una trasformazione fisica che è anche spirituale.
Molto bravo a nostro giudizio, anche se appena una spanna sotto Sara Serraiocco, è quindi anche Saleh Bakri: Salvo, nel restituirci il percorso di redenzione di un killer mafioso, perché il rischio di s/cadere nel patetico, nell’abusato, e nel logoro già visto, era davvero altissimo.
Saleh è misurato, ma assolutamente convincente, in ogni fase del suo percorso:
- nella sua efferatezza, come omicida,
- nella sua improvvisa ma radicale redenzione,
- e, quindi, nella sua ribellione,
- lo è ancora nella sua apparente rassegnazione,
- fino al suo totale riscatto.
Da segnalare, infine, per il rigore di questo attore, il cameo di Luigi Lo Cascio: Enzo Puleo. E’ bello vedere un attore come lui, sostenere un film siciliano così atipico ed al tempo stesso, così contro la mafia come pochi.
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5. Circa il linguaggio audiovisivo impressionista (spoiler)
Il film, personalmente, mi ha letteralmente stupito, proprio per gli aspetti formali di matrice impressionista.
Come non sottolineare le sequenze sfuocate, del mondo visto attraverso gli occhi di Sara, sia prima, e sia dopo, la sua lenta guarigione, in conseguenza dello shock della morte del fratello, e della pistola puntata contro di lei.
Oppure l’ossessiva ripetizione della canzone “Arriverà” dei Modà cantata con Emma. Che non sarà certo una colonna sonora di Nino Rota, ma che serve proprio per narrare lo spleen della vita e dell’infinitamente limitato, quanto, forse proprio per questo, smisuratamente puro, universo esistenziale di Rita.
La vista riacquistata, ancora, è esattamente il messaggio verso l’alto (e verso l’altro), del film, che riconduce al titolo, per certi versi beffardo, dato l’epilogo del film, ma sicuramente non un coincidenza semantica, anzi, “Salvo” è, infatti, al tempo stesso, sia il vero nome del protagonista, e sia il significato più pregnante di quello sta accadendo nella sua vita, in conseguenza degli eventi successivi alla guarigione di Rita, avvenuta sotto i suoi occhi.
Questi occhi che “vedono” ciò che cambia dentro le persone, inoltre, sembrano quasi alludere ad un riferimento che non so quanto sia corretto definire, addirittura, meta-linguistico, che collega gli occhi degli esistenti sullo schermo, a quelli dello spettatore della proiezione, nella platea della sala, dando vita ad una interessantissima riflessione sulla visione interiore, che proprio il mezzo cinematografico abilita.
In questo senso non è azzardato cogliere un legame all’ontologia del cinema documentaristico, ed anche al cinéma vérité.
E come non sottolineare, infine, i tanti rumori fuori campo ascoltati da Salvo, che culmineranno, nella drammatica sequenza finale, con una sirena di una nave in sottofondo.
Che, in realtà, ascolterà solo lo spettatore del film.
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6. Conclusioni – circa la convincente genialità di un finale ambivalente
Per me un film di rara potenza stilistica, emotiva, oltre che di narrazione filmica.
Che sfugge alle rigide catalogazioni di genere.
Perché raccontare in un unico,
- la vita disperata, e disperante, della mafia,
- una redenzione,
- un amore,
- ed una salvezza,
rimanendo, sostanzialmente, a ridosso – in un’atmosfera cupa, buia ed asfittica – a due soli esistenti, riuscendo comunque a racchiudere in loro un’intero universo di riferimento, è un’operazione di una portata notevole, anche se. si, ok, forse, in parte, già vista con “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo.
Ma qui siamo, in compenso, e veramente, su un cinema che sembra provenire da un altro pianeta.
Il finale poi, ammettiamolo, è un finale che da sia il senso di una speranza ancora possibile, da un lato, ma che, al tempo stesso, chiude il film, secondo noi correttamente, con l’esito di una sorte inevitabile, se non, appunto attraverso questa opera di “sacrificio salvifico“, che è, probabilmente, la cosa più interessante del film. Il suo nucleo, l’idea centrale, da cui gli autori sono partiti, per sviluppare tutta la trama della storia e del discorso della loro innovativa opera. Da cui probabilmente deriva anche il titolo della pellicola, che, lo ribadisco anche qui, resta volutamente ambiguo tra il nome proprio di persona, e l’aggettivo, quasi sostantivato.
Non so, nella sua coraggiosa ed inedita cifra, la pellicola mi ha riportato alla mente geni del calibro di Michelangelo Antonioni, a cui, sono certo, che, come a me, questo film sarebbe piaciuto molto.
Alla prossima … e ben tornato a me!
[…] Oggi è la volta di Antonio Piazza, uno dei due registi del film “Salvo“. […]