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Perché le serie televisive piacciono più dei film

Perché le serie televisive piacciono più dei film

di Roberto Bernabò

Con il definitivo avvento delle pay TV, del satellitare terrestre e non, della visione via streaming, l’offerta televisiva si è come dilatata.

Molti nuovi “format” si sono affacciati nei palinsesti sia lineari, che non lineari, andando a creare un vero e proprio effettoterremoto“, rispetto ai gusti, ed alle abitudini televisive, un po’ di tutti i telespettatori del globo.

Aldilà di un giudizio di merito, o, anche, perché no, estetico e morale, su quelli che mi possono sembrare dei progressi, o delle involuzioni, rispetto al passato, (e vi assicuro che ci sarebbe materia per argomentare in entrambe le direzioni), c’è un dato di fatto che emerge, scevro da qualunque altra considerazione.

Il film, il caro vecchio film, così come lo abbiamo conosciuto, (e continuiamo a conoscere, peraltro, ancora oggi), vacilla, di fronte al successo planetario del nuovo format delle serie TV, suddivise in stagioni, mediamente della durata di 8 episodi, che non deve essere assolutamente confuso, per nessuna ragione, con il racconto seriale che eravamo abituati a seguire nella TV generalista, tipo “Soap Opera”, o, peggio, “Telenovela”, in quanto non ha alcuna connessione con quel tipo di narrazione.

Da studioso, oltre che da appassionato di questa forma di racconto, mi sono iniziato a chiedere quali potessero essere le ragioni di una tendenza così transnazionale, e transgenerazionale, persino, posto che anche io, ne sono rimasto così rapito.

Non è facile, sia chiaro, trovare risposte univoche a tali interrogativi.

In quanto la questione si dipana su tutta una serie, molto articolata, di ragioni, per le quali lo spazio-tempo di un post, potrebbe non essere la sede più appropriata, per affrontare, in maniera esaustiva, la sua trattazione.

Mi limiterò, pertanto – da appassionato, studioso maniacale seriale, delle strutture narrative filmiche – ad avanzare qualche mia personale teoria, frutto, più che altro, dell’esperienza diretta di fruitore, e di maratoneta, di alcune serie che vanno per la maggiore, e di True Detective (sia prima, che seconda stagione), in particolare.

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Iniziamo con il dire che il film, qualunque film, (persino l’intera ontologia dei soggetti non originali, quelli frutto cioè di trasposizioni dal letterario al filmico), sconta il limite della durata del racconto.

Prefissato, standard, un po’ lungo, ormai, ahimè, per le esigenze di un mondo in costante accelerazione.

Ciò va a detrimento di due elementi chiave del racconto, a mio modo di vedere.

La possibilità di diluire la narrazione in porzioni parziali.

La conseguente possibilità di restituire accurate descrizioni dei personaggi, dei loro archetipi narrativi (spesso, inevitabilmente, semplici o semplificati, rispetto, ad esempio, agli alter ego dei romanzi), delle loro psicologie, di ciò che li muove all’azione, e, last but not least, dei loro inevitabili cambiamenti durante il susseguirsi devi eventi.

Nel format delle serie televisive, invece, gli sceneggiatori, potendo diluire il racconto in 8 episodi della durata di 1 ora circa, hanno diversi vantaggi, rispetto ai loro colleghi del cinema.

§§§

Innanzitutto (ragione, per me, principale, del successo di questo nuovo format), e che conferisce peraltro parziali nuovi significati delle “lezioni americane” sulla “brevità” e sull’”esattezza” di calviniana memoria, possono “dilatare” il racconto di ogni singolo esistente.

Possono quindi, conseguentemente, approfondire maggiormente le loro psicologie.

Possono fare evolvere la storia in molte più direzioni, anche inaspettate ed insospettabili, rispetto al cinema, come se avessero a disposizione più “tempinarrativi, rispetto a quelli concessi al racconto del film.

Possono traslare la narrazione su più piani, e noto, infatti, una maggiore propensione, ad esempio, al ricorso di significanti esoterici e spirituali.

Possono osare di più nell’utilizzo delle anacronie completive.

Potendo, peraltro, più degli sceneggiatori cinematografici, inserire in tali contesti, anche elementi extra diegetici, che favoriscono l’infittirsi, ed il dilatarsi della trama.

[Non è un caso se, nella prima stagione di True Detective, la scelta del racconto anacronico – non lineare, è proprio uno dei presupposti della storia, basata, principalmente, sull’interrogatorio dei due detective. Stratagemma che rende addirittura necessario il costante ricorso a flashback, e flashforward, che, più che completivi, finiscono per diventare la vera cifra stilistica, con cui, gradualmente, il quadro della narrazione si compone, quasi con in un puzzle spazio temporale.]

Possono fare tutto questo, peraltro, chiudendo un singolo episodio, in un tempo considerevolmente più breve, conseguentemente più “leggero“, e più adatto, più confacente, alle esigenze dello spettatore televisivo contemporaneo, che fruisce, ormai, del prodotto cinema, sempre più, quando non esclusivamente, nel contesto e nell’ambito del sempre più limitato tempo, di quella che definiremo la sua “finestra dell’esperienza domestica“.

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Se combiniamo, quindi, entrambi questi elementi.

Quelli di chi la storia la racconta. Con quelli di chi la storia la deve fruire, iniziamo a renderci conto della potenza che questo incontro produce.

Sia in termini di fascinazione, e sia in termini di affezione psicologica, (dipendenza?), che la mistura inevitabilmente genera.

Senza considerare il ricorso, ormai sempre più necessario ed ineludibile, ad attori premi Oscar del mondo del Cinema, (cosa impensabile nelle Soap Opera e nelle Telenovelas), sempre più, invece, interessati a cimentarsi in questi veri e propri “laboratori sperimentali“, nei quali nuove frontiere di soluzioni narrative, stanno dando vita ad un’incredibile era evolutiva del racconto filmico, al punto che anche i più affermati registi cinematografici ci si stanno avvicinando. (Due su tutti, i fratelli Premi Oscar Joel ed Ethan Coen, con la loro ultra premiata Serie TV “Fargo“.)

Scusate ma devo andare a vedere il quinto episodio della seconda stagione di True Detective, che mi sono scaricato in lingua originale.

Ebbene si, un giorno argomenteremo anche in favore delle ragioni del “download and play“, soprattutto in considerazione della fruizione dei contenuti sui device mobili (smartphone e tablet).

Alla prossima.

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