USA – 1982
breve riflessione sul ruolo degli attori
Come la fiducia ed il riconoscimento della creatività e dell’intuito degli attori possano riuscire a creare sequenze memorabili
a cura di Roberto Bernabò
“Fate che siano ben trattati: gli attori sono l’epitome e la cronaca del nostro tempo, e sarebbe meglio per voi avere un epitaffio maligno sulla tomba, che essere da loro dileggiati in vita!”
Amleto
Titolo: Blade Runner
Titolo originale: Blade Runner
Regia: di Ridley Scott
Genere: Fantascienza
Durata: 117 minuti
Cast Completo: Harrison Ford: Rick Deckar; Rutger Hauer: Roy Batty; Sean Young: Rachael; Daryl Hannah: Pris; Brion James: Leon Kowalski; Joanna Cassidy: Zhora Salome; Edward James Olmos: Gaff; M. Emmet Walsh: cap. Harry Bryant; Joe Turkel: dott. Eldon Tyrell; William Sanderson: J.F. Sebastian; Morgan Paull: Holden; James Hong: Hannibal Chew; Hy Pyke: Taffey Lewi; Ben Astar: Abdul Ben Hassan
Sinossi: In una Los Angeles piovosa e sovrappopolata del futuro (del 2019 oggi ormai passato), il poliziotto Deckard (Harrison Ford), dell’unità Blade Runner, viene richiamato in servizio. La sua specialità è l’eliminazione di esemplari insubordinati di “replicanti”, androidi destinati al lavoro nelle colonie spaziali. Il film ha ottenuto 2 candidature a Premi Oscar, 1 candidatura a Golden Globes.
“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.”
Rutger Hauer: Roy Batty
1. Introduzione
Quante volte abbiamo ascoltato la citazione di questa frase?
Si tratta dell’incipit di uno dei monologhi più celebri ed osannati nella storia del cinema.
Blade Runner, uno dei film di fantascienza tra i più rilevanti probabilmente di sempre, di questa specifica ontologia, non sarebbe lo stesso senza quelle parole.
E noi, se non ci fosse stata sul set, fiducia e rispetto tra i protagonisti di quell’opera, non avremmo avuto il piacere di ascoltarle.
La sequenza che ho riprodotto nel video YouTube embeddato nel post, rasenta la perfezione per la densità dei riferimenti filosofici e mistici, che arrivano a tangere la religione buddhista.
Roy Batty, infatti, si presenta all’attimo estremo della sua vita, paragonata da Eldon Tyrell, il fondatore della Tyrell Corporation, ad una candela che ha bruciato da tutti e due i lati, con una colomba bianca tra le braccia.
Dopo che avrà salvato la vita al suo antagonista Rick Deckar, e che la sua si sarà definitivamente spenta, infatti, la colomba sale verso il cielo, quasi a simboleggiare, con tale allegorica sequenza, una sorta di trasmigrazione delle anime.
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2. Rutger Hauer e le “Lacrime nella pioggia”
Roy Batty, il replicante filosofo e combattente interpretato da Rutger Hauer – che ho avuto il piacere di conoscere alla Casa del Cinema di Roma, in Largo Marcello Mastroianni 1, a Villa Borghese, prima della sua scomparsa avvenuta nella sua casa nei Paesi Bassi il 19 luglio 2019 – fa il suo monologo al cacciatore di androidi Rick Deckard (Harrison Ford) dopo averlo salvato da morte certa, durante il loro scontro finale.
La vita di Roy ha una data di scadenza. E’ praticamente agli sgoccioli e sta ormai per terminare. Ed è, infatti, proprio il tentativo di allungarla, che muove all’azione i replicanti fuggiti. (“Tempo bastante“, è il mantra di Roy Batty).
In quel momento, pertanto, paradossalmente, ogni vita, per lui, è importante.
E, come dall’alba dei tempi, tramandare parte della sua, è, per lui, una cosa imprescindibile.
La storia di come è nato il monologo, la sua intrinseca aspirazione verso la trascendente immortalità, sotto più accezioni del termine, però, racconta molto di più delle immagini evocative delle parole di Roy.
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3. Alle Porte di Tannhäuser
In un bellissimo documentario sulla lavorazione del film, il regista Ridley Scott, e lo sceneggiatore David Peoples, confermarono che Hauer mise mano alla sceneggiatura per modificare il suo momento più alto nel film.
Proprio così: la mattina delle riprese, Rutger Hauer si presentò con un monologo quasi completamente da lui stesso riscritto.
Ed anche se lui disse di averlo solamente “sforbiciato”, in realtà aggiunse e ritoccò così tanto (una frase su tutte: “e tutti questi momenti andranno perduti, nel tempo, come lacrime nella pioggia”), sino al punto di renderlo praticamente eterno.
Ridley Scott, un po’ provato dai tenti imprevisti avvenuti durante la lavorazione del film che si stava rivelando piena di problemi, un po’ per la fiducia che riponeva in questo serioso attore olandese dalla solida esperienza, decise di lasciarlo fare.
Il risultato fu quello che tutti conosciamo.
Cosa sarebbe successo se il regista, o lo sceneggiatore, lo avessero fermato?
Se gli avessero detto: “No, si fa così.” (Vi suona familiare?)
Magari avremmo avuto un monologo meno potente, meno evocativo, interpretato con metà della sua convinzione.
Un monologo che, probabilmente, non sarebbe mai entrato, di diritto, nella storia nel Cinema.
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4. Fiducia, esperienza e improvvisazione
Quella di Rutger Hauer è un’interpretazione da brividi.
La sua voce, il modo di fissare il vuoto, come a rivedere ogni singola esperienza citata in quanto vissuta, le pause drammatiche fino all’estremo epilogo.
Il suo Roy Batty ci appare come una statua greca, piena di bellezza e di fierezza, pronta a ergersi ad imperitura memoria, nei secoli a venire.
Questo è il risultato di esperienza e talento: è quello che un professionista può mettere “dentro” alla realtà del suo lavoro, in momenti cruciali, se viene lasciato lavorare.
Cosa c’insegna dunque la storia di Rutger Hauer e del suo celeberrimo monologo?
Che a volte è meglio improvvisare.
Che ci sono momenti in cui bisogna seguire il nostro istinto e cambiare.
Che fidarsi della propria storia, delle proprie capacità, di un vissuto che ci permette di inserire cultura e nozioni personali in qualcosa di “scritto”, che sia un testo o un destino professionale, è una scelta che paga.
Che la fiducia fra professionisti è una cosa sacra e insostituibile per raggiungere grandi risultati.
E questi momenti non andranno perduti come lacrime nella pioggia.
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Chiudo con l’ennesimo mio profondo ringraziamento al genio di Philip K. Dick, – l’autore dell’omonimo romanzo di cui il film è una mirabile operazione di trasposizione dal letterario al filmico, che, grazie a mia madre, ho avuto la fortuna di conoscere sin da quando avevo appena 8 anni, grazie alle letture tratte dal libro “Le meraviglie del possibile“, l’antologia di racconti di fantascienza curata da Fruttero e Luecentini – che conteneva anche alcuni proprio di Philip, il quale, invitato da Ridley Scott sul set del film di quella immaginifica Los Angeles di quel futuribile 2019, ebbe a dire al regista:
“Ma come hai fatto a capire che avevo immaginato esattamente questo?“
Alla prossima.