Se esistesse un dizionario bilingue donna-uomo/uomo-donna, non esisterebbero problemi di coppia. Perché l’incomprensione che spesso risiede nella comunicazione è soprattutto “il capirsi”.
E la questione spesso si complica perchè, quando un uomo parla con una donna, le parole acquisiscono (quasi sempre) un duplice significato: sembrano comunicare dei significati, mentre in realtà ne sotto-intendono altri. E questo perché quando gli uomini dicono una cosa, troppo spesso, in realtà, ne intendono un’altra.
Come uscirne mi chiederete, giustamente, voi, e, ancora, perché parli di queste cose nel mio blog.
Molto semplice.
E se la soluzione fosse il manslator? Un giochino simpatico ideato per promuovere il film “The Ughly Truth” che dice alle donne come stanno le cose: basta scrivere nel riquadro la frase detta dal vostro uomo e attivare il dizioMaschio per ottenere, così, il suo vero parere.
Ed un ricordo di quando era solo “Il Cielo sopra Berlino” ad unire la città
§§§
Il Muro di Berlino (in tedesco: Berliner Mauer), il cui nome ufficiale era Barriera di protezione antifascista (in tedesco: antifaschistischer Schutzwall), era una barriera in cemento alta circa tre metri che separava Berlino Est, capitale della Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est), da Berlino Ovest, exclave della Repubblica Federale di Germania (Germania Ovest) circondata dal territorio della Repubblica Democratica Tedesca. È considerato il simbolo della Cortina di ferro, linea di confine europea tra la zona d’influenza statunitense e quella sovietica durante la guerra fredda.
Eretto dal governo comunista della Germania Est, divise in due la città di Berlino per 28 anni, dalla sua costruzione (iniziata il 13 agosto del 1961) fino al suo crollo, avvenuto il 9 novembre 1989, a causa della sua inutilità, dopo lo smantellamento della cortina di ferro da parte dell’Ungheria (23 agosto 1989) e del successivo esodo (attraverso il paese danubiano) dei tedeschi dall’Est a partire dall’11 settembre dello stesso anno.
analisi di eventi, esistenti e linguaggio audiovisivo
L’etica di un gangster – possibili argomentazioni a favore – a cura di Roberto Bernabò
Nemico Pubblico – Public Enemies
titolo originale: Public Enemies
nazione: U.S.A.
anno: 2009
regia: Michael Mann
genere: Drammatico / Gangster
durata: 144 min.
distribuzione: Universal Pictures
cast: J. Depp (John Dillinger) • C. Bale (Melvin Purvis) • M. Cotillard (Billie Frechette) • J. Russo (Walter Dietrich) • D. Wenham (Harry ‘Pete’ Pierpont) • J. Clarke (John ‘Red’ Hamilton) • S. Dorff (Homer Van Meter) • C. Tatum (Pretty Boy Floyd) • R. Cochrane (Agente Carter Baum) • B. Katic (Anna Sage) • E. De Ravin (Barbara Patzke) • B. Crudup (J. Edgar Hoover) • G. Ribisi (Alvin Karpis) • J. Ortiz (Phil D’Andrea) • S. Hatosy (Agente John Madala) • D. Harvey (cliente Steuben Club) • S. Leigh (Helen Gillis) • S. Graham (Baby Face Nelson) • S. Garrett (Tommy Carroll) • S. Lang (Charles Winstead) • M. Craven (Gerry Campbell) • L. Mason (portiere Union Station) • L. Taylor (Sheriff Lillian Holley) • D. Warshofsky (Warden Baker) • L. Sobieski (Polly Hamilton)
sceneggiatura: R. Bennett • M. Mann • A. Biderman
musiche: E. Goldenthal
fotografia: D. Spinotti
montaggio: J. Ford • P. Rubell
Trama: Nessuno poteva fermare Dillinger e la sua banda. Non esisteva prigione dalla quale non riuscisse ad evadere. Il suo carisma e le rocambolesche fughe dalle prigioni lo rendevano interessante agli occhi di tutti – da quelli della sua fidanzata Billie Frechette a quelli del pubblico americano che non aveva simpatia per le banche responsabili di aver fatto precipitare il paese nella depressione. Ma mentre le avventure di Dillinger e della sua banda – che nell’ultimo periodo comprendeva anche due individui sociopatici dal nome Baby Face Nelson e Alvin Karpis – intrigavano i più, Hoover si riproponeva di utilizzare la pubblicità che la cattura del criminale avrebbe potuto generare in suo favore per trasformare il suo “Bureau of Investigation” nel dipartimento di polizia nazionale che è adesso l’FBI. Fece pertanto di Dillinger il primo Nemico Pubblico Numero Uno degli Stati Uniti d’America, mettendogli alle calcagna Purvis, l’affascinante “Clark Gable dell’FBI”.
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“Volevi sapere dov’è, tu stupido piedipiatti?
Gli sei passato accanto a State Street. Ma eri troppo impaurito per guardarti attorno.
Stava vicino al marciapiede in quella Buick nera.”
– Billie Frechette
1. Introduzione: il point of conentration narrativo(molto spoiler)
Mi sono interrogato più volte, dopo la visione in anteprima, in lingua originale della pellicola, su cosa mi avesse veramente colpito di questo bellissimo film.
Ed alla fine sono giunto ad una conclusione solo apparentemente paradossale.
1.1 L’etica del protagonista e la non etica degli antagonisti
Certo parlando di un gangster celeberrimo e pericoloso come John Dillinger, peraltro realmente esistito, il titolo del paragrafo può sembrare un’affermazione forte e persino fuori luogo, anche se è storia che il celeberrimo rapinatore restituì agli americani parte dei proventi delle sue rapine, cosa che controbuì, e non poco, a renderlo celebre ed a farne una sorta di moderno Robin Hood, eppure.
Traggo dal libro “La rapina in banca – Storia. Teoria. Pratica” – a cura di Klaus Schönberger.
Alla fine della sua vita, durata solo 31 anni, era diventato un mito, un eroe popolare, una sorta di Robin Hood dei rapinatori americani all’epoca della Grande Depressione.
E non perché regalasse ai poveri parte del suo bottino: nel corso delle sue rapine si limitava a far sparire qualche cambiale. Dillinger aveva lasciato la scuola e lavorava quando capitava, disertò il servizio militare ed era un grande ammiratore di Jesse James. Bastò questo, e una rapina ai danni di un anziano signore nel 1924, a farlo condannare a 20 anni di reclusione. Si fece trasferire in una prigione del Michigan, dove conobbe Homer van Meter e Harry Pierpont, che lo introdussero nei circoli elitari del carcere, composti da rapinatori d’alta classe che gli svelarono i trucchi della rapina in banca. Il 22 maggio 1933 Dillinger fu rilasciato, non prima di aver promesso ai suoi compagni che li avrebbe tirati fuori.
Nel giugno 1933, in un solo giorno, rapinò con altri complici una banca (al mattino), un drugstore e un supermercato (il pomeriggio). In breve tempo riuscì a mettere insieme la somma necessaria per far evadere i suoi amici, ma fu arrestato poco prima di poter entrare in azione, il 22 settembre 1933. Le armi necessarie all’evasione erano tuttavia già penetrate nel carcere, e il 27 settembre Homer van Meter, Harry Pierpont e altri riuscirono a scappare dalla prigione del Michigan. Il 12 ottobre furono loro stessi a sdebitarsi con Dillinger: lo liberarono, e due giorni dopo dettero inizio a un nuovo ciclo di colpi, tra cui alcuni agguati a stazioni di polizia per procurarsi armi automatiche e giubbotti antiproiettile.
Il 23 ottobre alleggerirono la Central National Bank di Greenclastle, Indiana, di 74.782 dollari. Il governatore dello Stato dell’Ohio chiese allora l’intervento della Guardia nazionale, e la banda fuggì alla volta di Chicago, dove, a metà gennaio del 1934, effettuò un colpo alla National First Bank. Le rapine si svolgevano secondo un piano ricorrente: un membro della banda studiava il posto, in seguito si stabiliva chi sarebbe entrato nella banca, chi si sarebbe occupato di guardare le spalle ai complici e chi avrebbe guidato la macchina su cui fuggire. Una volta nella banca, era in genere Dillinger a chiedere di poter parlare con il direttore, al quale poi comunicava gentilmente che si trattava di una rapina e che avrebbe dovuto consegnargli tutti i soldi depositati in cassaforte. Nel caso in cui il direttore avesse mostrato segni di esitazione, Dillinger avrebbe estratto la pistola. Nel corso della rapina alla National First Bank un palo della banda fu ucciso – l’unica morte di cui Dillinger fu mai ritenuto responsabile.
Il 22 gennaio Dillinger venne nuovamente arrestato e trasferito nel carcere di massima sicurezza di Crown Point, in cui già il 3 marzo prese due persone in ostaggio minacciandole con una pistola di legno che si era costruito da solo, si procurò quindi armi vere e imprigionò 26 dipendenti del carcere, poi rubò un’auto e si dileguò. Dillinger si guadagnò le prime pagine dei giornali, con grande disonore delle autorità. Divenne il “nemico pubblico numero uno” e sulle sue tracce si mise addirittura l’Fbi.
Il 22 luglio 1934, tre settimane dopo la sua ultima rapina, avvenuta a South Bend, Dillinger fu raggiunto alla schiena dalle pallottole di due poliziotti che lo aspettavano all’uscita di un cinema. A tradirlo era stata una donna, allettata dalla ricompensa promessa dalla taglia sulla testa di Dillinger.
Sembra che centinaia di persone, uscendo dal cinema, intinsero i propri fazzoletti nel lago di sangue in cui giaceva il bandito, per portarsi a casa un ricordo di lui. Furono 15.000 le persone che parteciparono al suo funerale e pare che, segretamente, fosse stata preparata per Dillinger una maschera mortuaria. Il bandito aveva conquistato i cuori della gente, e ancora oggi ci si chiede se fosse davvero Dillinger la persona uccisa quella sera. La sua storia può essere ripercorsa a Nashville, nel museo a lui dedicato.
Eppure, dicevo prima dell’inciso sulla vera storia di Dillinger, credo che, per comprendere, bene, quello che muove all’azione un po’ tutti gli esistenti del film, il ricorso all’etica può essere un elemento guida che può fornire una chiave di lettura che agevola la verifica della coerenza dell’impianto narrativo.
1.2 La prospettiva narrativa: la storia vista dalla parte del gangster
Altro elemento che salta subito all’occhio – e che certamente deriva dalle scelte narrative non del regista (o quanto meno non solo), ma dell’autore del romanzo Bryan Burrough, (ed il cui titolo è “Nemico pubblico – il romanzo criminale dell’America degli anni trenta“), di cui il film di Michael Mann rappresenta un’eccellente trasposizione dal letterario al filmico – è la prospettiva narrativa.
Il point of concentration dell’azione non è, infatti, narrare, asetticamente, la storia del rapinatore JohnDillinger, ma è di farlo scegliendo il punto di vista del gangster.
(Per la cronaca Bryan Burrough, http://www.bryanburrough.com/, ex reporter del Wall Street Journal, oggi scrive perVanity Fair. Ha vinto per tre volte il premio Jhon Hancock Award, conferito all’eccellenza nel giornalismo finanziario. E’ autore di numerosi libri, il più recente dei quali è The Big Rich è stato nella top ten dei libri più venduti edita dal New York Times).
Lo spettatore è quasi parte della sua banda.
Vive la lotta senza quartiere a lui, quasi partecipando alle sue azioni, sia criminali, che sentimentali.
E’ come se il regista narrasse il film scegliendo di abbandonare un ruolo di narratore, e delegando, tale compito, direi, se non esclusivamente, quantomeno in maniera prevalente, all’eroe.
Con un’accortezza.
Non riusciamo mai a capire esattamente come farà l’eroe a risolvere, sequenza dopo sequenza, tutti i vari bit narrativi che compongono la storia, che evolve nel classico canovaccio in cui l’esistente protagonista viene, via via, caricato di problemi sempre più grandi, e sempre più difficili da risolvere.
1.3 Il ruolo del Cinema
Il terzo elemento, che non è certamente trascurabile, e che appare allo spettatore cinephìle anche meno accorto, è il ruolo affidato al Cinema.
Ed in particolare al Cinema inteso in una triplice accezione.
Al Cinema, cioè, che tutti gli spettatori godono assistendo al film.
Al Cinema inteso, in chiave strettamente metalinguistica, del film nel film.
Ed al Cinema inteso come sala, come luogo cioè di fruizione del film (non è assolutamente banale questo aspetto per comprendere le sequenze finali). Una sorta di medium ambientale, attraverso il quale è possibile, persino un gangster braccato da schiere di poliziotti, evadere (è il caso, più che mai, di usare questo termine), dalla giogo della propria esistenza, per poi riprenderla, con un diverso grado di consapevolezza, al termine della proiezione.
Quasi come se il Cinema, in tale accezione, fosse il luogo dove guariamo e dove rinasciamo, pronti e ritemprati da nuove Verità, anche le più ferali, e nefaste e definitive.
Una chicca metalinguistica, che, dopo il film di Quentin Tarantino, è come se stesse diventando un po’ una cifra della recente produzione made in USA. Anche se, in questo, caso ampiamente giustificata dalla cronaca degli eventi storici.
E non è un caso notare che nella sequenza che chiude il film, ci sia come una netta contrapposizione tra chi è dentro la sala cinematografica, e chi, invece, attende fuori, eccezion fatta, forse, per la entraneuse immigrata rumena– Anna Sage, la donna che tradirà l’eroe, ma questo non vale per Dillinger, che, in una memorabile sequenza che precede la catartica e drammatica sequenza del cinema, ha modo di comprendere, fino in fondo, in una spericolatissima visita agli uffici della FBI, chi realmente sono stati i suoi fedeli compagni e chi no.
Il post in effetti potrebbe finire qui.
Ma proverò, lo stesso, a sviluppare meglio i tre punti della introduzione.
§§§
2. Circa l’etica del protagonista e la non etica degli antagonisti
La questione nei gangster movie è un po’ sempre la stessa.
Ci sono due fazioni, opposte, facilmente identificabili.
Ci sono i buoni, che normalmente coincidono con i tutori della legge, e ci sono i cattivi, che sono i gangster.
Che rapinano, uccidono, insomma fanno cose esecrande.
E’ difficile però, in genere, empatizzare, in questa ontologia del cinema, fino in fondo, e sin dalle primissime sequenze, con i cattivi, e, soprattutto, con il loro leader.
Anzi, se dovessi pensare agli ultimi film italiani come “Gomorra” di Matteo Garrone, ad esempio, dovrei ammettere, semmai, che l’obiettivo della narrazione è esattamente l’opposto.
C’è da chiedersi allora: “Perché il romanzo prima, ed il film dopo, tentano, invece, di mitizzare le gesta di John Dillinger?“
In realtà sappiamo che, quanto meno al cinema, è possibile fare praticamente tutto.
E non credo nemmeno, peraltro, che questo sia, in assoluto, il primo film in cui ciò accade.
Ma la cosa mi appare chiara se si mette al centro un altro tema.
Un tema con con cui la suddivisione buoni – cattivi, forse, c’entra poco.
E’ un tema morale e quasi filosofico.
Quello dell’etica.
E, lo dobbiamo proprio ammettere, di etica ultimamente in giro, e non solo in Italia, se ne vede pochina in giro, non credete?
Se guardiamo le azioni del protagonista, e quelle del suo antagonista Melvin Purvis, incaricato dall’ancora più arrivista e determinato J. Edgar Hoover, interpretati rispettivamente, più che convenientemente, dal bravissimo Christian Bale, e da Billy Crudup, noteremo un classico dei film del regista “narrare le gesta di uomini costretti ad agire in condizioni estreme“.
E’ questo che riesce a fare fruire di un fiato una pellicola di ben 140 minuti.
E sarà, proprio, la diversa prospettiva etica, a farci sentire vicini al gangster.
Va aggiunto che il contesto della storia è l’America della Grande Depressionedegli anni ’30 (toh, guarda, chissà perchè mi vengono alla mente i corsi ed i ricorsi storici di Giambattista Vico), e che Dillinger è una gangster assai più astuto e capace dei poliziotti che sono costretti a contrastarlo, che fa una cosa ed una sola:
rapina banche !!!
Proprio quelle banche che, anche nel 1930, furono tra le maggiori responsabili della povertà degli americani. Ma tu guarda.
E’ proprio vero … non s’impara mai abbastanza dai propri errori.
Detto questo è evidente perché il popolo americano, dell’epoca, ed uno scrittore, con vocazioni giornalistiche finanziarie, contemporaneo, ne mitizzano le gesta.
Perché, in quel contesto, Dillinger diventò davvero un eroe popolare, che seppe sfruttare le incapacità di un sistema difensivo poco connesso tra stato e stato, degli USA, e che ebbe, peraltro, il merito (direi suo malgrado), di provocare probabilmente la prima grande e strutturata lotta al crimine degli USA.
E quelli mica sono come noi.
Quando decidono di fare una cosa, la mettono in mano a persone competenti.
Competenti e, spesso, senza scrupoli.
E se un gangster è senza scrupoli, per definizione, i tutori dell’ordine dovrebbero essere, invece, animati non da bramosie di successo personale, ma da un elevatissimo spirito di servizio, agito solo ed esclusivamente in favore della collettività.
Ed è proprio su questo piano, che il rapporto protagonista – antagonista, tra Dillingere Melvin Purvis, si ibrida.
Chi è il buono e chi il cattivo?
Chi è che si preoccupa, realmente, della sorte dei suoi uomini, e della sua innamorata?
Queste domande trovano, tutte, risposte nell’azione del film, ed è, pertanto, pleonastico che io risponda.
Il Potere, e noi in Italia, ahimè, lo sappiamo sin troppo bene, quando deve raggiungere un obiettivo, non conosce regole, e chi meglio di noi, oggi, ad oltre un secolo dagli eventi narrati dal film, può comprenderlo meglio?
Una sequenza però ci parla dell’etica anche tra gli antagonisti tutori dell’ordine.
E’ il poliziotto, umile ma sagace, che studia, realmente, lui si, e con lealtà, il suo avversario, sino alle estreme conseguenze.
Divertitevi a scoprirlo tra la compagine dell’FBI, ed apprezzatene anche il gesto altamente morale di cui è capace nella sequenza che chiude il film.
Sequenza che fa, peraltro, da suggello all’altro ambito di sviluppo della trama: la romanticissima love story tra John Dillinger e Billie Frechette, interpretata, direi magnificamente, dal premio OscarMarion Cotillard (migliore attrice protagonista per il film “La vie en rose” – 2007 – di Olivier Dahan, nel quale interpretò niente meno che Édith Piaf, e fortemente voluta per la parte dal regista).
3. Circa il ruolo del Cinema
In primo luogo il cinema come potente strumento evocativo e ri-evocativo di un’epoca.
Quella della Grande Depressione.
Tutto in questa produzione è meticoloso.
Basti pensare come ho avuto moto di leggere sulle note di produzione, ai ben 107 set allestiti.
O alla fedeltà, quasi maniacale, nel selezionare tutti luoghi dell’azione.
Le ricostruzioni degli interni e degli esterni.
I costumi.
Alla scelta degli attori, perchè se è vero che Dillinger diventò un mito tra gli americani, è altrettanto vero che Johnny Depp (davvero notevole nel ruolo, secondo me questo film segna un punto di svolta davvero importante nella carriera di questo attore, che, ultimamente, si era, a mio avviso, troppo legato alle saghe dei Pirati, ad esistenti dark, ed a quelli dei film di Tim Burton, devo, in verità, ancora apprezzarlo in Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo – The Imaginarium of Doctor Parnassus, regia di Terry Gilliam – 2009), è nato a soli 160 miglia dalla casa d’infanzia di Dillinger, sita a Mooresville, nell’Indiana.
Es alla suggestiva e notevole colonna sonora.
Ma c’è una cosa che non passa inosservata allo spettatore cinephìle.
Sull’orlo del suo baratro Dillinger fa due cose.
Forse rese ancora più epiche da una probabile forzatura della verità storica.
Si reca in un cinema.
E si fida di una donna che non è quella che ama.
Perché lo fa?
Cosa cercava in un Cinema un uomo ormai disperato?
Che aveva visto morire ad uno ad uno tutti i suoli leali, coraggiosi e fedeli compagni di avventura.
Qui il film ha una interessantissima, almeno per me, deriva metalinguistica.
Da un lato, ancora una volta, riusciamo ad apprezzare la chicca del film nel film (nel caso di specie “Le due strade” – 1934 di W.S. Van Dyke II, titolo sicuramente non scelto a caso in quanto fedele alla ricostruzione in quanto realmente fu la visione della pellicola l’ultima azione del vero Dillinger, con Clarke Gable nella parte di un gangster prossimo alla sua morte. (Traggo dal Morandini: Dopo aver passato insieme l’infanzia in un quartiere popolare di Manhattan, due amici prendono strade diverse: uno diventa magistrato, l’altro delinquente. Il primo condannerà a morte il secondo. Sceneggiato dal giovane Joseph L. Mankiewicz su un racconto di Arthur Caesar che vinse un Oscar, ha un interesse soprattutto storico come archetipo di dramma criminale “made in Hollywood”, ma non manca di qualità intrinseche per il brio degli interpreti e della messinscena. Noto anche perché il nemico pubblico n. 1, John Dillinger, fu ucciso vicino al Biograph Theatre di Chicago subito dopo averlo visto. Esiste in edizione colorizzata. Conosciuto anche come “Le due vie“.)
E dall’altro come non riflettere, e questa volta seriamente, sul ruolo del Cinema come luogo dove assistiamo all’opera cinematografica.
Il soggetto che parla qui (alias Rob.) deve riconoscere una cosa.
Gli piace uscire da una sala cinematografica.
Ritrovandosi nella strada illuminata, e quasi deserta (ci va sempre di sera preferendo, quasi sempre, il durante la settimana) e dirigendosi mollemente verso qualche pub, o ristorante, o caffè, cammina in silenzio, (non gli piace parlare subito del film che ha appena visto), un po’ intorpidito, goffo, infreddolito – insomma assonato: insomma ha sonno, ecco a che cosa pensa.
Nel suo corpo si è diffuso un senso di torpore, di dolcezza, di calma: languido come un gatto addormentato, si sente un po’ disarticolato, o meglio (perché per un’organizzazione morale il riposo non può consentire che in questo), irresponsabile.
In breve, è evidente, esce in uno stato di ipnosi.
E dell’ipnosi (vecchia arma psicanalitica, che la psicanalisi sembra ormai trattare con condiscendenza) ciò che percepisce è il più antico dei poteri: quello di guarire.
Dal cinema si esce spesso proprio così.
Come vi si entra?
Fatta eccezione per il caso, a dire il vero sempre più frequente, di una ricerca culturale ben precisa (film scelto, voluto, cercato, oggetto di una vera e propria vigilanza preliminare), si va al cinema approfittando di un momento di ozio, di disponibilità, di vacanza.
Tutto si svolge come se, ancora prima di entrare nella sala, si sommassero le condizioni classiche dell’ipnosi:
1. vuoto
2. ozio
3. disimpegno
non è davanti al film, o a causa del film che si sogna.
Quasi inconsapevolmente si sogna ancor prima di diventare spettatori.
C’è in pratica una “situazione del cinema“, e tale situazione è “pre-ipnotica“.
Per citare una metonimia che risponde al vero, il “nero della sala” è prefigurato dalla “fantasticheria crepuscolare” (preliminare all’ipnosi secondo Breur e Freud) che precede al nero e conduce il soggetto, di strada in strada, di blog in blog, di manifesto in manifesto, ad inabissarsi infine in un cubo scuro, anonimo, indifferente, dove deve prodursi quel festival di affetti che sono, siamo soliti chiamare film.
§§§
Mi piace pensare che anche Dillinger avesse cercato un’esperienza del genere, per sentirtisi davvero pronto ad affrontare l’epilogo forse più giusto e definitivo, al termine di quella delle due strade che si era scelto, in definitiva, tanto per vivere, che per morire.
Una. Per la co-sceneggiatrice Ann Biderman. E’ una scrittrice per il cinema e per la televisione. Riguardo al Cinema la segnalo per “Il senso di Smilla per la neve” un film di genere thriller del 1997, diretto da Bille August, e basato sull’omonimo romanzo (titolo originale in danese: Frøken Smillas fornemmelse for sne) del 1992 scritto da Peter Høeg. Tra gli interpreti principali troviamo Julia Ormond, Gabriel Byrne e Tom Wilkinson.
E per “Schegge di paura” un film thriller del 1996, diretto da Gregory Hoblit e tra gli altri interpretato da Richard Gere, Laura Linney ed Edward Norton.
La sceneggiatura stesa per il film è liberamente basata sul romanzo giallo di William Diehl Primal Fear.
Due. Per la colonna sonora.
Degna di nota è colonna sonora con musiche di Otis Taylor, Elliot Goldenthale e con, soprattutto, la voce struggente voce di Billie Holiday, ascoltate la celeberrima The Man I Love.
Nemico Pubblico – Public Enimies – le tracce musicali
1. Ten Million Slaves – Otis Taylor
2. Chicago Shake – The Bruce Fowler Big Band
3. Drive To Bohemia – Elliot Goldenthal
4. Love Me or Leave Me – Billie Holiday
5. Billie’s Arrest – Elliot Goldenthal
6. Am I Blue? – Billie Holiday
7. Love In The Dunes – Elliot Goldenthal
8. Bye Bye Blackbird – Diana Krall
9. Phone Call To Billie – Elliot Goldenthal
10. Nasty Letter – Otis Taylor
11. Plane To Chicago – Elliot Goldenthal
12. O Guide Me Thou Great Jehova – Indian Bottom Association, Old Regular Baptists
13. Gold Coast Restaurant – Elliot Goldenthal
14. The Man I Love – Billie Holiday
15. JD Dies – Elliot Goldenthal
16. Dark Was The Night, Cold Was The Ground Blind – Willie Johnson
Nemico Pubblico – Public Enemies – di Michael Mann
L’uomo che fissa le capre – di Grant Heslov
Marpiccolo – di Alessandro di Robilant
Alza la testa – di Alessandro Angelini
Berlin Calling – di Hannes Stöhr
Anno Uno – di Harold Ramis
Nemico Pubblico – Public Enemies
titolo originale: Public Enemies
nazione: U.S.A.
anno: 2009
regia: Michael Mann
genere: Drammatico / Gangster
durata: 143 min.
distribuzione: Universal Pictures
cast: J. Depp (John Dillinger) • C. Bale (Melvin Purvis) • M. Cotillard (Billie Frechette) • J. Russo (Walter Dietrich) • D. Wenham (Harry ‘Pete’ Pierpont) • J. Clarke (John ‘Red’ Hamilton) • S. Dorff (Homer Van Meter) • C. Tatum (Pretty Boy Floyd) • R. Cochrane (Agente Carter Baum) • B. Katic (Anna Sage) • E. De Ravin (Barbara Patzke) • B. Crudup (J. Edgar Hoover) • G. Ribisi (Alvin Karpis) • J. Ortiz (Phil D’Andrea) • S. Hatosy (Agente John Madala) • D. Harvey (cliente Steuben Club) • S. Leigh (Helen Gillis) • S. Graham (Baby Face Nelson) • S. Garrett (Tommy Carroll) • S. Lang (Charles Winstead) • M. Craven (Gerry Campbell) • L. Mason (portiere Union Station) • L. Taylor (Sheriff Lillian Holley) • D. Warshofsky (Warden Baker) • L. Sobieski (Polly Hamilton)
sceneggiatura: R. Bennett • M. Mann • A. Biderman
musiche: E. Goldenthal
fotografia: D. Spinotti
montaggio: J. Ford • P. Rubell
Trama: Nessuno poteva fermare Dillinger e la sua banda. Non esisteva prigione dalla quale non riuscisse ad evadere. Il suo carisma e le rocambolesche fughe dalle prigioni lo rendevano interessante agli occhi di tutti – da quelli della sua fidanzata Billie Frechette a quelli del pubblico americano che non aveva simpatia per le banche responsabili di aver fatto precipitare il paese nella depressione. Ma mentre le avventure di Dillinger e della sua banda – che nell’ultimo periodo comprendeva anche due individui sociopatici dal nome Baby Face Nelson e Alvin Karpis – intrigavano i più, Hoover si riproponeva di utilizzare la pubblicità che la cattura del criminale avrebbe potuto generare in suo favore per trasformare il suo “Bureau of Investigation” nel dipartimento di polizia nazionale che è adesso l’FBI. Fece pertanto di Dillinger il primo Nemico Pubblico Numero Uno degli Stati Uniti d’America, mettendogli alle calcagna Purvis, l’affascinante “Clark Gable dell’FBI”.
Film notevole, sicuramente la migliore uscita del week end. E probabilmente una delle migliori dell’anno, date retta ad uno stupido.
L’ho visto in anteprima ed in lingua originale, e la mia analisi è qui.
5 stars.
L’uomo che fissa le capre
titolo originale: The Men Who Stare at Goats
nazione: U.S.A.
anno: 2009
regia: Grant Heslov
genere: Commedia
durata: 90 min.
distribuzione: Medusa Film
cast: G. Clooney (Lyn Cassady) • E. McGregor (Bob Wilton) • K. Spacey (Larry Hooper) • J. Bridges (Bill Django) • R. Patrick (Todd Nixon) • S. Root (Gus Lacey) • S. Lang (Generale Hopgood) • R. Curtis-Brown (Maggiore General Brown)
sceneggiatura: P. Straughan
musiche: R. Kent
fotografia: Elswit
montaggio: T. Riegel
Trama: Il giornalista Bob Wilton è in cerca di uno scoop quando incontra Lyn Cassady, una figura ambigua che sostiene di appartenere a un’unità sperimentale dell’esercito americano. Secondo Cassady, il New Earth Army sta cambiando la maniera di combattere le guerre: una legione di monaci guerrieri con poteri mentali senza precedenti è in grado di leggere il pensiero del nemico, attraversare i muri e addirittura uccidere una capra semplicemente guardandola. Ora, il fondatore del programma, Bill Django, è scomparso e la missione di Cassady è di ritrovarlo. Intrigato dalle strampalate storie raccontate dalla sua nuova conoscenza, Bob decide di seguirlo nella ricerca. E quando l’improbabile coppia rintraccia Django in un campo di addestramento clandestino gestito dal fuorilegge psicotico Larry Hooper, il giornalista resta intrappolato nel mezzo di una battaglia tra le forze del New Earth Army di Django e la milizia personale di Hooper formata da super soldati. Per sopravvivere a questa selvaggia avventura, Bob dovrà superare in astuzia un nemico che non avrebbe mai pensato di dovere affrontare.
«Questa storia è più vera di quanto possiate credere», ironizza una didascalia prima dei titoli di testa. In effetti dietro la trasposizione dal letterario al filmico di questo film c’è un preciso e insondabile libro-inchiesta pubblicato nel 2004 dal reporter e documentarista inglese Jon Ronson (tradotto da Einaudi Stile Libero) che sembrerebbe peraltro più uscito dalla fantasia scatenata dei fratelli Coen che dalla realtà.
Pare che sia talmente strano (anche il titolo infondo lo è) da lasciare il lettore sospeso per più di 250 pagine fra sarcasmo e incredulità.
Cosa devo pensare secondo voi di una storia tanto incredibile quanto assurda di militari addestrati a sviluppare poteri extrasensoriali per scopi bellici, che a sentire l’autore (ed a curiosare sulla rete), sembrerebbe essere tutt’altro che una bufala?
Forse dovrei archiviarlo all’insegna dell’incredibile ma vero, o forse solo le più incredibili bugie create ad arte per depistare i curiosi e soddisfare i paranoici?
Il cast è notevole e George Clooney è tutt’altro che uno stupido.
Io dico 4 stars.
Marpiccolo
titolo originale: Marpiccolo
nazione: Italia
anno: 2009
regia: Alessandro di Robilant
genere: Drammatico
durata: 93 min.
distribuzione: Bolero Film
cast: G. Beranek (Tiziano) • A. Ferruzzo (Maria) • M. Riondino (Tonio) • G. Colangeli (De Nicola) • V. Carnelutti (Prof. Costa) • S. Orzella (Stella) • N. Rignanese (Franco) • R. Bovenga (Trascene)
sceneggiatura: A. Cotti • L. Fasoli • M. Ravagli
musiche: Mokadelic
fotografia: D. Scott
montaggio: R. Missiroli
Trama: Ambientato in uno dei quartieri più disagiati e degradati di Taranto, Paolo VI, “Marpiccolo” vede Tiziano, un ragazzo diciottenne troppo intelligente per non finire nei guai e troppo intelligente per non uscire dai suoi guai. E’ anche la storia di una ragazza che vuole con tutte le sue forze una vita normale e con solo la sua volontà riesce a strappare il suo ragazzo ad un vita segnata.
Sono contento di parlare in termini cautamente entusiastici di una pellicola girata a Taranto.
Marpiccolo è un luogo famoso per chi conosce quella città.
Io l’ho conosciuta ed ho anche amato una ragazza del posto.
E non è un caso che un regista che amo particolarmente Edoardo Winspeare l’abbia scelta per il suo film “Il miracolo“.
Nella lunga carrellata con cui Di Robilant apre Marpiccolo il regista è come se circoscrivesse con molta precisione un intero universo.
Un cosmo avrebbe detto forse Eugenio Bennato.
Taranto, ed il suo entroterra è stato violentato al pari del mare che la fronteggia, stantio e soffocato dai veleni dell’industria.
Proprio come per l’hinterland napoletano di “Gomorra” di Matteo Garrone, ampiamente citato nello specifico filmico di Alessandro di Robilant, l’uomo ha ammalato la Natura e i suoi stessi simili.
Mentre Di Robilant sorvola queste “miserie”, il suo intento drammaturgico si svela e ai nostri occhi e tutto è già compiuto.
Quando il suo cinema iper realista riprende uno dei quartieri più degradati della città, vediamo le vere miserie di un universo disperato che conosciamo bene, di cui sappiamo già l’epilogo: il destino a cui Tiziano sembra incapace di opporsi se non con la fuga verso un qualcosa di indefinito e incerto.
Mentre, entriamo con Tiziano dentro la Gomorra tarantina scopriamo che le cronache disperate di cui rigurgitano ogni giorno giornali e tv del Belpaese possono essere raccontate con una nuova forza, cercando di lasciare una crepa nel muro di gomma e dare uno schiaffo al potere che vive sulla disperazione.
Aggiungo e chiudo che il bravissimo attore Michele Riondino, molto da me apprezzato per “Il passato è una terra straniera” di Daniele Vicari, tratto da un romanzo di Gianrico Carofiglio, è davvero nato in quella città ed in quel quartiere.
3 stars virgola cinque.
Alza la testa
titolo originale: Alza la testa
nazione: Italia
anno: 2009
regia: Alessandro Angelini
genere: Commedia
durata: 86 min.
distribuzione: 01 Distribution
cast: S. Castellitto (Mero) • G. Colangeli (Malagodi) • A. Kravos (Sonia) • D. Camerini (Abatino) • A. Fornari (Brancifiore) • G. Campanelli (Lorenzo)
sceneggiatura: A. Angelini • A. Carbone • F. Marciano
fotografia: A. Catinari
montaggio: M. Fiocchi
Trama: Mero, operaio specializzato in un cantiere nautico, è un padre single. Lorenzo, il figlio nato da una relazione con una ragazza albanese, è la sua unica ragione di vita e il sogno dell’uomo è che il ragazzo diventi un campione di boxe, riscattando così la sua anonima carriera da dilettante. Per questo lo allena duramente, insegnandogli giorno dopo giorno a tirar pugni e a proteggersi dai colpi bassi della vita. L’equilibrio di questo rapporto è sconvolto dal ritorno di Denisa, la madre di Lorenzo, e dall’incontro tra il figlio e la giovane Ana. Le prove per Mero non sono finite e dovrà confrontarsi con il dolore, con i propri pregiudizi e con la lontananza del nostro Nord Est.
Non fidatevi troppo del commento che segue.
Soffro ultimamente di idiosincrasia improvvisa verso un attore che è invece bravissimo Sergio Castellitto che però si vuole calare in troppi ruoli.
Adesso è nei panni di un padre boxer che vuole lanciare il figlio nel mondo della boxe ed attraverso questa insegnargli anche la morale della vita.
Scusate ma mi sembra davvero troppo.
E’ un peccato perché magari lo spunto per un buon film c’era, ma ho paura ci si affidi troppo alle intenzioni ed alle capacità recitative, che alla storia.
Mi dispiace per Alessandro Angelini (L’aria salata) che ha lavorato come fotoreporter freelance per diverse agenzie di stampa prima di iniziare la carriera di assistente alla regia e aiuto regista, un decennio di collaborazioni che l’hanno portato al fianco di vari autori tra cui Nanni Moretti, Mimmo Calopresti, Francesca Comencini.
Con “Ragazzi del Ghana” ha vinto la prima edizione del concorso Doc al Torino Film Festival 2000.
Courtesy of TFF.
Io ci metto 3 stars e chiusa lì.
Berlin Calling (2008)
titolo originale: Berlin Calling
nazione: Germania
anno: 2008
regia: Hannes Stöhr
genere: Drammatico
durata: 105 min.
distribuzione: Officine Ubu
cast: P. Kalkbrenner (Ickarus) • R. Lengyel (Mathilde) • C. Harfouch (Prof. Dr. Petra Paul) • A. Walton (Corinna) • P. Schneider (Crystal Pete) • M. Nebbou (Jamal the Junk) • H. Müller (Jenny)
sceneggiatura: H. Stöhr
musiche: P. Kalkbrenner
fotografia: A. Doub
montaggio: A. Fabini
Trama: Ickarus, famoso DJ e compositore di Berlino, si appresta a pubblicare il suo nuovo disco, che dovrebbe consacrarne il definitivo successo. Quando il disco viene rifiutato dalla casa discografica, Ickarus comincia una rapida discesa nei bassifondi di Berlino e della sua vita. Neppure la sua fidanzata Mathilde sembra riuscire a mettere un freno ai suoi continui eccessi, al punto tale da lasciarlo, per tornare con la sua ex Corinna. Intanto i problemi con la droga di Ickarus diventano sempre più opprimenti, fino a costringerlo ad un ricovero forzato in una struttura di recupero. Proprio da qui ripartirà, componendo le musiche per un nuovo disco dal titolo “Berlin Calling”, che segnerà l’inizio di una nuova tournée e, forse, di una nuova vita.
Certo siamo a pochi giorni dall’anniversario della caduta del muro di Berlino ed alllora i nostri strateghi del marketing cinematografico ci propinano un bel filmone tedesco.
Peccato però che lo stesso sia un film freddo, girato più a tavolino che sul set. privo di quella forza espressiva che avevamo invece apprezzato che so in “4 minuti” di Chris Kraus o ne “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmarck.
Troppa carne al fuoco.
Universi sofinati trattati in maniera approssimativa.
La parte meglio riuscita pare sia quella finale, che appare come una sorta di appello sincero e accorato allo spettatore, nel quale si percepiscono le motivazioni che animano la storia e dove si riesce anche ad emozionare, perché il regista prova a velare la pellicola della sua sensibilità, che rimane però troppo più ingenua e bonaria di quanto richiesto dal resto del film.
Siamo, insomma, assai lontani dallo spirito epico di London Calling, dalla claustrofobia alienante di Requiem for a dream o dal reale sporco di Trainspottin.
2 stars.
Anno Uno (2009)
titolo originale: Year One
nazione: U.S.A.
anno: 2009
regia: Harold Ramis
genere: Commedia
durata: n.d.
distribuzione: Sony Pictures
cast: J. Black (Zed) • M. Cera (Oh) • O. Platt (padre superiore) • D. Cross (Cain) • C. Mintz-Plasse (Isaac) • V. Jones (Sargon) • H. Azaria (Abraham) • J. Temple (Eema) • O. Wilde (Principessa Inanna) • J. Raphael (Maya) • X. Berkeley (King) • H. Sanz (Enmebaragesi) • D. Pasquesi (Primo Ministro) • H. Ramis (Adam) • K. Gass (Zaftig l’eunuco) • B. Hader (Shaman) • P. Rudd (Abel)
sceneggiatura: H. Ramis • G. Stupnitsky • L. Eisenberg
musiche: T. Shapiro
fotografia: A. Kivilo
montaggio: C. Herring • S. Welch
Trama: Quando una svogliata coppia di cacciatori/raccoglitori è cacciata dal loro primitivo villaggio, partono per un viaggio attraverso il mondo antico.
Perché si girano film così?
Me lo chiedo anche io.
Forse perchè qualche anno fa un film del genere girato in Francia con Jean Reno ebbe un certo successo al box office.
Io se fossi in voi non rischierei 7 euri e 50 per questo film.
E i trailer dove li guardo?
Ma nello spazio commenti dell’altro mio blog: qui.
Il “Cinema Sordo” del regista italo-argentino: Emilio Insolera
Sinossi
[Italiano]
Titolo: Sign Gene
Genere: Sci-Fi / Azione
Durata: 95 min.
La “Quinpar Intelligence Agency” riceve la notizia che due americani sordi sono stati assassinati in Giappone. Due insoliti e divertenti agenti, Tom Provetta (Sordo) e Ken Wong (CODA*), portatori del “Sign Gene”, vengono spediti a Giappone per codesta missione. Il loro compito e’ semplicemente quello di osservare e di fare un rapporto sulla situazione. Ma, gia’ durante il loro primo giorno in Giappone, scoprono un indizio importante. Seguendo il loro giudizio, decidono cosi d’inseguire l’indizio e inaspettatamente si ritrovano in una guerra contro i membri della Yakuza (=Japanese mafia) anche loro portatori del “Sign Gene” e capiscono che possono solo sopravvivere imparando a lavorare con duro impegno in coppia e giocando il gioco nella maniera giapponese.
CODA (Children of Deaf Adults) = Figlio udente di genitori sordi.
[English]
Synopsis
Title: Sign Gene
Genre: Sci-Fi / Action
Runtime: 95 min
Quinpar Intelligence Agency, receive info that two Deaf american citizens have been killed in Japan. Two unlikely and funny agents, Tom Provetta (Deaf) and Ken Wong (CODA*) are sent to Japan for that mission. Although they are sent strictly as an information gathering team, they are unable to resist following a very tempting clue that leads them straight into the heart of a Yakuza (= Japanese mafia) war. They soon discover that they can only survive by learning how to work together and play the game the Japanese way.
Il regista italo-argentino, Emilio Insolera, è sordo e proviene da una famiglia di sordi, vive in Giappone, ed attualmente è impegnato nella presentazione al mondo della sua produzione del film indie intitolato “Sign Gene” (www.pluin.com) una pellicola del genere di azione sci-fi, girato tra New York ed altre locations in Giappone.
Il film presenta una serie di caratteristiche uniche.
Ve ne elenco alcune.
I dialoghi del film sono in “Lingua dei Segni” (più esattamente le lingue utilizzate nel film sono: Lingua dei Segni Americana, Lingua dei Segni Giapponese, Lingua dei Segni Internazionale, tratti di Lingua dei Segni Italiana, Inglese parlato, Giapponese parlato).
Sia cast che crew sono composti da un centinaio di attori, sia persone sordeche udenti, provenienti dal Giappone, dall’America, e dall’Europa. Nonostante un contesto piacevole e divertente, in questa opera vi si riflette, a guardare bene, uno spirito puramente filosofico ed educativo.
Credo sia importante – in mondo dove il dialogo tra le genti e tra i popoli è sempre più difficile – che sia proprio una pellicola come questa a dimostrare che, persino per chi non è in grado di ascoltare gli altri, è invece possibile dialogare in maniera tras-nazionale.
Come non essere ottimisti di una notizia del genere.
In breve, Backstage (da cui sono tratti i due video) e’ la risorsa degli attori e dei registi di Hollywood e di film indipendenti (http://en.wikipedia.org/wiki/Back_Stage) mentre NHK Nippon Hoso Kyokai è la più importante azienda pubblica radio televisiva del Giappone, il corrispettivo della RAI Italiana (http://en.wikipedia.org/wiki/NHK).
Giovanni di The Old Oak – di Ken Loach: “Film della scuola “Loach” da non perdere. Non solo i contenuti politici richiamati dalle lotte sindacali ricordare durante il film…” Feb 4, 19:05
Roberto Bernabò di Maradona by Emir Kusturica: “@Amed, carissimo, grazie di queste bellissime parole. Che Diego possa davvero risposare in pace per sempre. E’ stato il più…” Gen 15, 15:25
Amed di Maradona by Emir Kusturica: “Bello, sono stato fortunato di avere vissuto dal vivo la sua dimostrazione nel calcio, lui con la palla non giocava…” Nov 26, 18:51
Marisa di Dirty Dancing – Balli Proibiti di Emile Ardolino: “Bello, davvero, condivido pienamente! Questo significa andare in profondità e nello stesso tempo aprire a prospettive impensate. Mi sono avvicinata…” Gen 2, 21:49
Roberto Bernabò di Mia Madre – di Nanni Moretti: “Cara Marie, innanzitutto grazie per l’attenzione che poni ai contenuti di questo blog. Sinceramente, però, le tue segnalazioni rimangono un…” Ott 14, 19:23
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