titolo originale: Up
nazione: U.S.A.
anno: 2009
regia: Peter Docter • Bob Peterson
genere: Animazione
durata: 104 min.
distribuzione: Buena Vista International
sceneggiatura: B. Peterson
musiche: M. Giacchino
montaggio: T. Gonzales • C. Hsu
Trama: Un eroe settantenne, assieme al suo incapace compagno ranger, viaggia per il mondo combattendo mostri e malvagi e cenando alle 15.30.
Decolla subito “Up”, ma più i protagonisti si spingono nei cieli meno sembra di volare.
L’ultimo prodotto della Pixar non delude certo le attese, nonostante il clamore attorno questa pellicola sia stato enorme, su tutto la selezione come film d’apertura dell’ultimo Festival di Cannes.
Impeccabile come l’industria californiana ci ha abituato, preceduto da un corto all’altezza dei più famosi, “Up” stupisce perché non si mostra come sarebbe normale aspettarsi, e questo aspetto potrebbe essere l’elemento che lo farà rivalutare maggiormente tra qualche anno.
Niente a che vedere con la poesia di “Wall-E” né dotato della stessa spettacolarità visiva, l’ultimo nato vince, in particolare nei primi minuti, sul piano della risata pura; si differenzia però anche per una vena di tristezza troppo terrena rispetto ai prodotti precedenti, superata troppo velocemente per riuscire a metabolizzarla e dimenticarla.
Nelle dinamiche interne ai personaggi manca originalità, così come nello svolgimento della storia dall’incontro con l’esploratore in poi; la cosa migliore rimane lo spunto iniziale, per un film che si lascia godere dall’inizio alla fine ma non fa gridare al capolavoro.
3 stars virgola cinque e ce ne dispiace assai.
Genova
titolo originale: Genova
nazione: Gran Bretagna
anno: 2008
regia: Michael Winterbottom
genere: Drammatico
durata: 92 min.
distribuzione: Officine Ubu
cast: C. Firth (Joe) • C. Keener (Barbara) • H. Davis (Marianne) • W. Holland (Kelly) • P. Haney-Jardine (Mary) • K. Shale (Stephen) • D. Goritsas (Steve) • T. White (Michael)
sceneggiatura: L. Coriat • M. Winterbottom
musiche: M. Parmenter
fotografia: M. Zyskind
montaggio: P. Monaghan
Trama: In seguito ad un tragico incidente che provoca la morte della madre Marianne, la sedicenne Kelly e la sorella minore Mary lasciano gli Stati Uniti con il padre Joe per trasferirsi a Genova, dove da anni vive un’amica di Joe, Barbara. Il nuovo ambiente rappresenta per la famiglia la possibilità di ricominciare a vivere: mentre il padre tiene corsi estivi all’università, le due ragazze prendono lezioni di piano a casa di Mauro che vive nella parte più antica della città, un groviglio di stretti viottoli in cui le ragazze faticano ad orientarsi. Mentre Kelly esplora il ventre oscuro di questo nuovo mondo e inizia a vivere i primi amori, Mary si sente responsabile della morte della madre e avverte la sua presenza nei meandri della città.
Dopo “Road to Guantanamo” ed altri film altrettanto impegnati, ci si potrebbe aspettare che “Genova” sia un film sul G8 e sui pestaggi alla Diaz.
Invece Winterbottom torna al cinema tradizionale, alla fiction pura, scegliendo il capoluogo ligure quale sfondo per ambientare una difficile vicenda familiare, l’immersione in una nuova realtà tanto esterna quanto interiore da parte di un padre appena rimasto vedovo e delle sue due figlie. Lungi dal rimanere semplice sfondo, a mo’ di cartolina turistica, Genova diventa man mano che la vicenda evolve il vero protagonista del film, interagendo con i protagonisti e le loro sensazioni, determinandone le azioni e le reazioni.
Winterbottom si dimostra a suo agio con la macchina a mano attraverso gli stretti vicoli di un centro storico ingarbugliato come quello genovese, appoggiandosi per il resto sulle spalle di un ottimo Colin Firth, alla sua prima convincente prova da protagonista drammatico. L’elaborazione del lutto è un tema che inevitabilmente ricorre spesso al cinema, principalmente per via delle proprietà catartiche che riconosciamo a questo strumento: in “Genova” quantomeno si evitano i toni elevati, mantenendo costantemente la vicenda sull’orlo di una tensione che minaccia di esplodere ma rimane interiore.
Un’ultima cosa … distrubuiscono il film le “Officine Ubu“, no dico scherziamo?
Direi almeno 3 stars virgola cinque.
Lo spazio bianco
titolo originale: Lo spazio bianco
nazione: Italia
anno: 2009
regi:a: Francesca Comencini
genere: Drammatico
durata: 96 min.
distribuzione: 01 Distribution
cast: M. Buy (Maria) • S. Cantalupo (Gaetano) • G. Caprino (Pietro) • G. Bruno (Giovanni Berti)
sceneggiatura: F. Comencini • F. Pontremoli
musiche: N. Tescari
fotografia: L. Bigazzi
montaggio: M. Fiocchi
Trama: Maria aspetta una bambina, non è più incinta ma aspetta lo stesso. Aspetta che sua figlia nasca, o muoia. E se c’è una cosa che Maria non sa fare è aspettare. È per questo che i tre mesi che deve affrontare, sola, nell’attesa che sua figlia Irene esca dall’incubatrice, la colgono impreparata. Abituata a fare affidamento esclusivamente sulle proprie forze e a decidere con piena autonomia della propria vita, Maria si costringe a un’apnea passiva che esclude il mondo intero, si imprigiona nello spazio bianco dell’attesa. Ma questo sforzo di isolamento doloroso consuma anche l’ultimo filo di energia a disposizione: la bolla di solitudine in cui Maria si è rinchiusa è messa a dura prova e alla fine esplode. È necessario che Maria salvi se stessa per riuscire a salvare la bambina.
“Lo spazio bianco” è la trasposizione dal letterario al filmico dell’omonimo romanzo di Valeria Parrella pubblicato in Italia da Einaudi.
Lo stile narrativo della Comencini, posato e realistico come in passato, si apre questa volta anche alla forza visionaria di alcune scene surreali (il ballo delle madri, la scomparsa di Pietro dietro una folla di scout in piazza Plebiscito), intermezzi dell’anima che esprimono la parte più intima e personale della protagonista. Nell’attesa di un segno rivelatore, di un cambiamento, di un assestamento, le tende dell’ospedale si aprono e si chiudono segnando il repentino passaggio dall’insicurezza a brevi momenti di gioia, dallo sconforto alla speranza. La musica, tutta al femminile (Blondie, Nina Simone, Cat Power, Ella Fitzgerald), avvolge il dramma dell’attesa in una delicatezza priva di facili sentimentalismi, accarezzando la storia e infondendole forza e tenacia. Un modo raro di raccontare che porta l’attenzione su uno dei momenti più straordinari della vita di una donna. Tra il ‘bianco’ che annulla e contiene tutte le emozioni e lo ‘spazio’ dell’anima, dove la nascita di un figlio riserva un posto speciale.
3 stars ed un virgola cinque solo per Margherita Buy (nuda).
Funny People
titolo originale: Funny People
nazione: U.S.A.
anno: 2009
regia: Judd Apatow
genere: Commedia
durata: 136 min.
distribuzione: Universal Pictures
cast: A. Sandler (George Simmons) • S. Rogen (Ira Wright) • E. Bana (Clarke) • L. Mann (Laura) • J. Schwartzman (Mark Taylor Jackson)
sceneggiatura: J. Apatow
musiche: J. Schwartzman
fotografia: J. Kaminski
montaggio: C. Alpert • B. White
Trama: George Simmons è un cabarettista di successo. Le donne gli cadono ai piedi, gli uomini ne cercano l’amicizia. Un giorno scopre di avere una grave malattia del sangue che lo condanna ad un solo anno di vita. Una sera dopo un’esibizione in un locale, incontra Ira Wright, un comico alle prime armi. George gli insegna i trucchi del mestiere, i segreti dell’improvvisazione, temprandolo per il grande pubblico. Ma oltre ad un maestro di recitazione George si rivela per Ira un maestro di vita e un amico genuino.
Uno dei film meno peggio della settimana ed ho detto tutto.
3 stars virgola cinque.
Di me cosa ne sai
titolo originale Di me cosa ne sai
nazione: Italia
anno: 2009
regia: Valerio Jalongo
genere: Documentario
durata: 78 min.
distribuzione: Istituto Luce
sceneggiatura: V. Jalongo • G. Manfredonia • F. Farina
montaggio: M. Garrone
Trama: Fino agli anni Settanta il cinema italiano dominava la scena internazionale, arrivando perfino a fare concorrenza ad Hollywood. Poi, nel volgere di pochi anni, il rapido declino, la fuga dei nostri maggiori produttori, la crisi dei grandi registi-autori, il crollo della produzione. Ma quali sono le vere cause e le circostanze di questo declino? Nel cercare di dare una risposta a questa domanda, “Di Me Cosa Ne Sai” tenta di raccontare questa grande mutazione culturale.
Non ne sappiamo nulla appunto è questo il problema.
A parte che Vittorio Longo è:
un attore: La città dei nostri sogni (1988),
uno sceneggiatore: Di me cosa ne sai (2009) Sulla mia pelle (2005) (story) Torniamo a casa (1999) (TV) (screenplay) Messaggi quasi segreti (1997) (writer) La città dei nostri sogni (1988) (story)
ed un regista italiano: Di me cosa ne sai (2009) Sulla mia pelle (2005) Torniamo a casa (1999) (TV) Messaggi quasi segreti (1997) La città dei nostri sogni (1988) Juke box (1985)
“Di me cosa ne sai” comincia come un’inchiesta su uno dei tanti misteri degli anni Settanta. Ma a differenza di altri misteri italiani senza soluzione, qui non ci sono cadaveri, né stragi. C’è però l’improvviso, rapidissimo declino di un cinema che per trent’anni ha dominato le scene internazionali. Com’è potuto succedere? Chi o che cosa ha ucciso il grande cinema italiano? Questa domanda ci guida in un percorso ricco di testimonianze preziose e di riflessioni originali: da Mario Monicelli a Wim Wenders, da Dino De Laurentiis ad Andreotti, Ken Loach e molti registi italiani. Ma “Di me cosa ne sai” è soprattutto un racconto in forma di diario, brevi sprazzi dalla vita quotidiana di alcuni registi impegnati in una lotta a volte drammatica a volte comica per difendere il proprio lavoro e i propri film, che spesso è anche una lotta per la sopravvivenza personale. Un viaggio in Italia attraverso sale cinematografiche, esercenti innamorati del proprio mestiere, multiplex, laboratori digitali di Cinecittà e vecchi proiezionisti girovaghi… un viaggio che è anche un ritratto amoroso del cinema e del nostro paese.
Diciamo che questo è un film che parla del cinema italiano.
Forse è davvero un progetto interessante.
Lo rivalutiamo?
Io direi che un po’ m’incuriosisce e merita almeno 3 stars.
Orphan
titolo originale: Orphan
nazione: U.S.A. / Canada
anno: 2009
regia: Jaume Collet-Serra
genere: Horror
durata: 123 min.
distribuzione: Warner Bros
cast: V. Farmiga (Kate Coleman) • P. Sarsgaard (John Coleman) • I. Fuhrman (Esther) • C. Pounder (Sister Abigail) • J. Bennett (Daniel Coleman) • M. Martindale (Dr. Browning) • K. Roden (Dr. Värava)
sceneggiatura: D. Johnson
musiche: J. Ottman
fotografia: J. Cutter
montaggio: T. Alverson
Trama: La tragica perdita del figlio deceduto prima di venire alla luce ha devastato Kate e John, mettendo in crisi il loro matrimonio e minando la fragile psiche di Kate, tormentata da incubi e visioni legate al passato. Lottando per riconquistare una parvenza di normalità, la coppia decide di adottare un bambino e rimane profondamente colpita dalla piccola Esther, incontrata all’orfanotrofio locale. Ma quando Esther si trasferisce nella loro casa, un’allarmante serie di eventi inspiegabili si manifesta tanto da spingere Kate a credere che nella bambina ci sia qualcosa di sbagliato e che il suo aspetto angelico nasconda in realtà qualcosa di terribile …
Non c’è niente di più spaventoso come l’idea di essersi messi in casa qualcuno che non si conosce bene e che con il tempo si rivela sempre più inquietante. La convivenza con un elemento deviante che riesce a metterci contro i nostri cari è da sempre una scintilla che scatena ansia, come anche il tema del bambino demoniaco (sia metaforicamente che effettivamente) capace di passare per innocente agli occhi di tutti e di far credere pazzi coloro che lo accusano. Jaume Collet-Sera su quest’impianto si inventa molto poco rubando suggestioni da L’Innocenza del Diavolo e molto horror spagnolo recente. La sua idea di suspense non solo è abbastanza scontata ma a tratti anche ingannatoria.
Lunghi momenti di silenzio interrotti da rumori improvvisi, porte che sbattono, macchine che suonano il clacson o impennate della colonna sonora sono il mezzo principale per aumentare la tensione anche quando poi si rivela un inganno, quando cioè la molta paura del protagonista (e dello spettatore) è per qualcosa che avviene. Purtroppo tutto questo non è propedeutico a null’altro, uno spavento fine a se stesso senza che ci sia nessuna vera costruzione di una paura duratura.
Solo il colpo di scena finale riesce a regalare qualche brivido inatteso e un senso di inquietudine riguardo i bambini e il loro modo di apprendere e rimestare le nozioni che li circondano che riesce ad accompagnare lo spettatore anche fuori dalla sala. Ma è comunque poca cosa.
3 stars.
Viola di mare
titolo originale: Viola di mare
nazione: Italia
anno: 2009
regia: Donatella Maiorca
genere: Drammatico
durata: 105 min.
distribuzione: Medusa Film
cast: V. Solarino (Angelo/Angela) • I. Ragonese (Sara) • E. Fantastichini (Salvatore) • M. Cucinotta (Agnese) • G. Volodi (Lucia) • M. Foschi (Tommaso) • L. Lante della Rovere (Baronessa) • C. Fortuna (Ventura) • A. Vassallo (Nicolino) • E. Cucinotti (Concetta)
sceneggiatura: D. Maiorca • P. Mandolfo • M. Cristiani • D. Diamanti
fotografia: R. Allegrini
montaggio: M. Spoletini
Trama: Sullo sfondo dell’Italia ottocentesca, mentre Garibaldi sbarca in Sicilia con i suoi Mille, in una piccola isola, tra il mare pressante e la siciliana fede dei ruoli blindati, una donna vive una rivoluzione ben più grande: per sopravvivere allo scandalo della propria omosessualità accetta di fingersi uomo. A 25 anni la sua vita diventa quella di un altro: coppola, sigaro in bocca, una famiglia benedetta dal Signore, e tanto potere per occultare la trasformazione.
La storia del film Viola di mare prende spunto da un fatto realmente accaduto in un’isola della Sicilia di fine ’800.
La regista Donatella Maiorca proviene dalla televisione è stata in particolare regista de “La Squadra”.
Non deve stupire pertanto la distribuzione della Medusa Film.
Sfrondata da ogni orpello di perversione, la storia di Angela è unicamente una storia d’amore, di desiderio oltre che una strategia del vivere.
Ce ne frega qualcosa?
Io direi 2 stars virgola cinque.
Halloween II
titolo originale: Halloween II
nazione: U.S.A.
anno: 2009
regia: Rob Zombie
genere: Horror
durata: 101 min.
distribuzione: Mediafilm
cast: S. Moon (Deborah Myers) • C. Vanek (Young Michael) • S. Taylor-Compton (Laurie Strode) • B. Dourif (Sceriffo Lee Brackett) • C. Williams (Dr. Maple) • M. Mcdowell (Dr. Samuel Loomis) • T. Mane (Michael Myers) • D. Callie (Coroner Hooks) • R. Brake (Gary Scott) • B. Rue (Jazlean Benny) • M. Boone Junior (Floyd) • R. Curtis-Brown (Kyle Van Der Klok)
sceneggiatura: R. Zombie
musiche: T. Bates
fotografia: B. Trost
montaggio: G. Garland • J. Pashby
Trama: E’ di nuovo Halloween, e Michael Myers fa ritorno nella soporifera cittadina di Haddonfield, Illinois, per occuparsi di alcune questioni di famiglia rimaste irrisolte. Scatenando una scia di terrore, Myers non si fermerà davanti a niente per celare i segreti del suo oscuro passato. Ma la città ha un nuovo improbabile eroe, se i suoi abitanti riusciranno a sopravvivere abbastanza a lungo da fermare ciò che non può essere fermato.
Gli omaggi e i remake sono sempre pericolosi ma Rob Zombie ci si trova così a suo agio che, dopo aver affrontato le premesse e il remake dell’omonimo film di Carpenter del 1979, decide di ‘omaggiare’ anche il suo seguito del 1981. Lo fa con grande consapevolezza del mezzo e del genere nel primo terzo del film.
A partire dal momento in cui Laurie viene trasportata in ospedale la tensione sale e la paura si fa palpabile. Perché Zombie è indubbiamente capace di far percepire l’orrore rendendolo credibile e ‘quotidiano’. Dove riesce meno è nella strutturazione narrativa. Tutte le sequenze dedicate all’autopromozione del Dottor Loomis (che vorrebbero essere una freccia avvelenata scagliata contro chi strumentalizza a fini personali le sofferenze e la morte trasformandole in evento mediatico) finiscono con lo spezzare proprio quella tensione che così abilmente era stata costruita dallo Zombie regista.
È come se Rob avesse (e la migliore delle tradizioni horror lo contempla) due sé al suo interno. Uno dei quali lotta per distruggere il lavoro dell’altro.
Noi diciamo 2 stars.
E i trailer dove li guardo?
Ma nell’area commenti dell’altro blog cliccando qui, che domande.
titolo originale: Agora
nazione: Spagna
anno: 2009
regia: Alejandro Amenábar
genere: Avventura / Storico
durata: 128 min.
distribuzione: n.d.
cast: R. Weisz (Hypatia) • M. Minghella (Davus) • O. Isaac (Orestes) • A. Barhom (Ammonius) • M. Lonsdale (Theon) • R. Evans (Synesius)
sceneggiatura: A. Amenábar • M. Gil
Trama: “Agora” vuole raccontare l’antica civiltà egizia e la sua affascinante cultura. Ambientato ad Alessandria d’Egitto nel quarto secolo d.c., ripercorre la storia di Hypatia di Alessandria, leggendaria astronoma e filosofa, che cerca il segreto per poter conservare tutti i saperi della sua civiltà. La sua vita è strettamente legata a quella dello schiavo Davus, da sempre innamorato di lei che ora, però, è costretto a scegliere se restare schiavo ma vicino a lei, oppure conquistare la libertà, convertendosi al cristianesimo.
Come solo chi segue il Cinema sa, Alejandro Amenábar è il regista cileno spagnolo autore di capolavori come “Mare dentro” o come “The Others“.
Nel suo ultimo film, presentato all’ultima rassegna del Cinema di Cannes, Agora, il regista racconta la storia, finora misconosciuta di Hypatia di Alessandria.
Ipazia (in greco Hypatia, pron. Ipàzia) fu una grande scienziata e filosofa vissuta ad Alessandria tra il 4° e il 5° secolo d.C., forse la più importante figura per la cultura dell’epoca, oltre che – si racconta – bellissima donna.
Poiché ebbe l’ardire di opporsi alla barbarie del cristianesimo, che avrebbe di lì a poco precipitato l’occidente nel medioevo, fu trucidata e il suo corpo orrendamente straziato per ordine di Cirillo, vescovo di Alessandria. Da allora il suo nome è praticamente scomparso (non quello del suo uccisore, che fu fatto santo), e assieme a lei la sapienza della civiltà Alessandrina.
Oggi la Chiesa tenta, nuovamente, l’opera di cancellazione di questa figura scomoda. I testi su Hypatia in italiano sono quasi introvabili, e il nuovo film, un colossal dal cast internazionale presentato a Cannes 2009, ha trovato distribuzione in tutto il mondo tranne che in Italia.
Per impedire che un capolavoro del cinema come questo, non venga proiettato anche in Italia, come io personalmente ritengo giusto, è nata una petizione che chiede, infatti, che il film Agorà, di Alejandro Amenábar, venga distribuito in Italia. Firmiamola.
La mia proposta è che tutti i blogger e cinebolgger, sensibili alla petizione, copino questo post nel loro blog o, magari, più semplicemente, linkino questo, così d’aumentare la visibilità di questa sconcertante notizia.
Trailer del film Agora di Alejandro Amenábar
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Per approfondire ulteriormente
Un autorevole articolo della notissima rivista di Repubblica: Micro Mega.
Scritto e firmato non da un nickname, ma, niente di meno che, da Margherita Hack?
Da cui traggo un estratto:
Ipazia era nata ad Alessandria d’Egitto intorno al 370 d.C., figlia del matematico Teone. Fu barbaramente assassinata nel marzo del 415, vittima del fondamentalismo religioso che vedeva in lei una nemica del cristianesimo, forse per la sua amicizia con il prefetto romano Oreste che era nemico politico di Cirillo, vescovo di Alessandria.
Malgrado l’amicizia con Sinesio, vescovo di Tolemaide, che seguiva le sue lezioni, i fondamentalisti temevano che la sua filosofia neoplatonica e la sua libertà di pensiero avessero un’influenza pagana sulla comunità cristiana di Alessandria.
L’assassinio di Ipazia è stato un altro atroce episodio di quel ripudio della cultura e della scienza che aveva causato molto tempo prima della sua nascita, nel III secolo dopo Cristo, la distruzione della straordinaria biblioteca alessandrina, che si dice contenesse qualcosa come 500.000 volumi, bruciata dai soldati romani e poi, successivamente, il saccheggio della biblioteca di Serapide. Dei suoi scritti non è rimasto niente; invece sono rimaste le lettere di Sinesio che la consultava a proposito della costruzione di un astrolabio e un idroscopio.
Il fondamentalismo non è morto. Ancora oggi si uccide e ci si fa uccidere in nome della religione. Anche nei nostri civili e materialistici paesi industrializzati avvengono assurde manifestazioni di oscurantismo, come in alcuni stati della civilissima America in cui si proibisce di insegnare nelle scuole la teoria dell’evoluzione di Darwin e si impone l’insegnamento del creazionismo. Su questa strada di ritorno al Medioevo si è messa anche la nostra ministra dell’Istruzione (o dovremmo dire della distruzione?) tentando di cancellare la teoria darwiniana dalle scuole elementari e medie. Perché? Per ignoranza?
Per accontentare una Chiesa cattolica che non mi sembra ingaggi più queste battaglie perse in partenza.
Woodstock di Ang Lee, contro l’atmosfera aurorale del film d’esordio di Giuseppe Capotondi – che ha fruttato la Coppa Volpi a Ksenia Rappoport – o è forse Francois Ozon, la rivelazione del weekend?
Non ti fare infinocchiare dagli specchietti per le allodole …
Le atmosfere aurorali, e le altre verità sui film in uscita il 9 ottobre 2009, le trovi solo su cinemavistodame2.com.
Nell’area commenti i trailer. Tutti. Ma proprio tutti, così, qualora lo desideriate, potrete farvi completamente in autonomia, anche la vostra di opinione.
Ehm … noi vi consigliamo di andare di là, ma fate vobis.
Le mie grosse grasse vacanze greche – di Donald Petrie
Barbarossa – di Renzo Martinelli
La doppia ora
titolo originale: La doppia ora
nazione: Italia
anno: 2009
regia: Giuseppe Capotondi
genere: Drammatico / Thriller
durata: 95 min.
distribuzione: Medusa Film
cast: K. Rappoport (Sonia) • F. Timi (Guido) • G. Colangeli (prete anziano)
sceneggiatura: L. Rampoldi • A. Fabbri • S. Sardo
musiche: P. Catalano
fotografia: T. Radcliffe
montaggio: G. Notari
Trama: Sonia viene da Lubiana e fa la cameriera. Guido è un ex poliziotto e lavora come custode in una villa. Si incontrano in uno speed date. Lui è un cliente fisso. Per lei è la prima volta, e si vede. Poche parole, un’istintiva attrazione. In pochi giorni imparano a conoscersi, a svelare le proprie ferite. Sono sul punto di innamorarsi, quando Guido muore. Improvvisamente, durante una rapina nella villa che dovrebbe custodire. Sonia si ritrova da sola a elaborare un lutto di cui non riesce a trovare il senso. E di cui alcuni addirittura la ritengono responsabile. Mentre il passato di Sonia ritorna, con tutti i suoi nodi non risolti, la realtà che la circonda comincia a collassare, fino a crollarle addosso. Chi è veramente Sonia? E soprattutto, è davvero Guido quello che lei continua a vedere?
Molte sono le ragioni che ci spingono a parlare (ed a scrivere) assai bene di questo film.
La prima è che un film d’esordio, e si sa che noi amiamo le atmosfere aurorali, che si respirano su certi set.
La seconda è che trattasi di film cosiddetto di sceneggiatura.
Che significa? Mi chiederete, e giustamente, voi.
In primis una menzione al Premio Solinas, che voglio dire mica pizza e fichi.
In secundis la peculiarità dell’impianto narrativo.
Viene, in pratica, chiesto allo spettatore di codesta opera, non solo di attivare al massimo i processi d’infralettura narrativa (comprendere, cioè, immaginandoli, i bit di accadimenti non mostrati), ma, addirittura di risovere, insieme agli esistenti, le vicende intricate del film.
Non vogliamo anticipare di più in questa sede.
La terza motivazione attiene alle interpretazioni di Filippo Timi, che si conferma, ancora una volta, come uno dei migliori attori emergenti, e che pare offra al suo personaggio le ombre e le luci di una tenerezza che rischia di sprofondare nel dolore, e quella di Ksenia Rappoport (vincitrice per questa pellicola della Coppa Volpi a Venezia), che conferisce al personaggio di Sonia una fragilità psicologica assolutamente credibile, anche quando sublima nella sorpresa.
Morale?
In pratica quattro stars, e consiglio di questo blog per il weekend.
Ricky
titolo originale: Ricky
nazione: Francia / Italia
anno: 2009
regia: Francois Ozon
genere: Commedia / Drammatico
durata: 90 min.
distribuzione: Teodora Film
cast: A. Lamy (Katie) • S. López (Paco) • A. Peyret (Ricky) • M. Mayance (Lisa) • J. Bolle-Reddat (giornalista) • A. Wilms (medico)
sceneggiatura: F. Ozon
musiche: P. Rombi
fotografia: J. Lapoirie
Trama: Quando Katie, una donna ordinaria, incontra Paco, un uomo ordinario, qualcosa di magico e di miracoloso avviene: una storia d’amore. Dalla loro unione nascerà un bimbo straordinario: Ricky.
Film interessante è invece questo di Francois Ozon che aprì la Biennale di Berlino n° 59.
Luis Buñuel diceva che bisognerebbe filmare i sogni come fossero realtà, e la realtà come fosse un sogno.
‘Ricky’ è un film su un miracolo, pur non essendo un film cattolico.
Una sorta di elogio della diversità, in salsa puramente laica.
Un film rischiosissimo dunque, e, pare, miracolosamente riuscito.
François Ozon è un autore francese che, del resto, ci ha abituato a parecchie sorprese, anche se spesso lascia interdetti sia la critica (quella ufficiale non certo la mia), che il pubblico.
Noi gli accreditiamo 3 stars virgola cinque.
Motel Woodstock
titolo originale: Taking Woodstock
nazione: U.S.A.
anno: 2009
regia: Ang Lee
genere: Commedia
durata: 110 min.
distribuzione: Bim Distribuzione
cast: L. Schreiber (Vilma) • P. Dano • E. Hirsch • J. Morgan • E. Levy (Max Yasgur) • I. Staunton (Mrs. Tiber) • K. Garner • D. Fogler (Devon) • K. Sussman (Stan)
sceneggiatura: J. Schamus
musiche: D. Elfman
fotografia: E. Gautier
montaggio: T. Squyres
Trama: Tratto dal libro “Taking Woodstock, a True Story of a Riot, a Concert, and a Life” di Elliot Tiber, l’uomo che ha reso possibile il festival che raccolse mezzo milione di partecipanti giunti da qualunque parte del mondo, il film – girato vicino a Woodstock – è incentrato su un ragazzo che lavora al motel dei genitori e dà involontariamente il là al concerto-evento del 1969.
Poco si può dire sulle capacità registiche di Ang Lee.
Quanto al film, lo stesso non deve essere confuso con una pellicola che celebra l’anniversario del concerto (40 anni).
Trattasi, piuttosto, della trasposizione dal letterario al filmico del punto di vista che, sul concerto, ebbe Elliot Tiber.
Ciò, in pratica, tende a significare che Ang Lee ha scelto, per questa sua opera – che rinverdisce le atmosfere di “Banchetto di nozze” – lo sguardo di colui che, in questo concerto, intravide un’opportunità personale, ancor prima di realizzare il valore e la portata che quei tre mitici giorni, avrebbero finito con l’assumere per la cultura tout court, e non solo per quella pop.
Tiber ha scritto con Tom Monte il libro “Taking Woodstock. A True Story of a Riot, A Concert and a Life” ed Ang Lee ha preso le mosse dalla sua testimonianza non (quanto meno non solo), per raccontare il concerto (questo in verità era già stato fatto cinematograficamente, e con grande maestria, da Michael Wadleigh, che aveva tra gli aiuti un giovine, un certo ehm … Martin Scorsese), ma per descrivere una Società.
Lo fa attraverso una moltitudine di personaggi, più o meno di primo piano, ognuno dei quali finisce con il rappresentare una delle tante prospettiche facciate, di quella sorta di gigantesco prisma ottico, che erano gli Stati Unitid’America, all’epoca.
Non meno di tre stars virgola cinque (ma nemmeno di più, eh).
Fame – Saranno famosi
titolo originale: Fame
nazione: U.S.A.
anno: 2009
regia: Kevin Tancharoen
genere: Commedia / Musicale
durata: 120 min.
distribuzione: Lucky Red Distribuzione
cast N. Naughton (Denise) • K. Penabaker (Jenny) • A. Perez de Tagle (Joy) • K. Grammer (Joel Cranston) • M. Mullally (Fran Rowan) • C. Pennie (Malik) • A. Book (Marco) • K. Payne (Alice)
sceneggiatura: A. Burnett
musiche: M. Isham
fotografia: S. Keavan
montaggio: M. Kerstein
Trama: Remake del celeberrimo film diretto da Alan Parker nel 1980. Come l’originale, questa moderna versione è incentrata sulla vita di alcuni studenti che frequentano una scuola di spattacolo a New York, dalle prove per l’ammissione fino al diploma.
Si, ok, e allora?
Ci teniamo l’originale, tanto più che questa operazione nell’era dei talent show stile Maria de Filippi, mi puzza lontano un miglio.
Scommettiamo che, nostro malgrado, sbancherà al box office?
Sempre che regga il passo di Tarantino e di Tornatore, eh.
Noi, però, diamo 2 stars al film, e siamo generosi.
Le mie grosse grasse vacanze greche
titolo originale: My Life in Ruins
nazione: U.S.A. / Spagna
anno: 2009
regia: Donald Petrie
genere: Commedia
durata: 95 min.
distribuzione: Videa CDE
cast: N. Vardalos (Georgia) • R. Dreyfuss (Irv) • A. Georgoulis (Poupi Kakas) • A. McGowan (Nico) • H. Williams (Big Al) • R. Dratch (Kim) • C. Goodall (Dr. Tullen) • I. Ogilvy (Mr. Tullen)
sceneggiatura: M. Reiss
musiche: D. Newman
fotografia: J. Alcaine
montaggio: P. Don Vito
Trama: Georgia è una guida turistica, prende la vita troppo sul serio e nel suo lavoro e addirittura pedante. Tutto sembra andare storto, fino a quando non si trova a fare i conti con uno strampalato gruppo di turisti in vacanza in Grecia, sua terra natale …
Qui, ragazzi, dal combinato disposto del cinema made in Usa e della enorme capacità del Marketing cinematografico italiano non c’è più davvero limite alla decenza.
Della serie.
Loro fanno una merda di film. Si ho detto merda e allora? Quelli ci mettono un titolo civetta. (Che si scherza mattacchioni !!!)
Cosa sono i titoli civetta.
Sono come degli specchietti per le allodole, dove, però, le allodole siete voi.
Tempo addietro ci fu un film, “Il mio grosso grasso matrimonio greco“, una pellicola del 2001, che era un film onesto e divertente. Sempre made in USA e diretto da Joel Zwick.
Ora il gioco qual’è?
Si prende un film che ha in qualche modo attinenza con la Grecia, e gli si appioppa un titolo simile.
Il regista è un altro?
E chi se ne frega noi dobbiamo vendere mica informare.
Ecco ora siete informati.
Il film fa cagare o quasi (eh si scherza eh non sto parlando sul serio, eh).
Noi gli diamo due stars ed una tiratina d’orecchi ai markettari, eh si, vi abbiamo sgamati.
Come? C’è Nia Vardalos che recitava (anche) ne “Il mio grosso grasso matrimonio greco”?
E allora? Anche che ne so Vittorio de Sica, con dei fini assai più nobile di questa pellicola, ha fatto dei brutti film, per dirne una.
Stupisce solo il nome di Tom Hanks come produttore, si vede che avrà bisogno di soldi, mah …
Grosse grasse risate italiane.
Barbarossa
titolo originale: Barbarossa
nazione: Italia
anno: 2009
regia: Renzo Martinelli
genere: Drammatico
durata: 139 min.
distribuzione: 01 Distribution
cast: R. Degan (Alberto da Giussano) • R. Hauer (Barbarossa) • F. Abraham (siniscalco Barozzi) • A. Cupo (Alberto Dell’Orto) • H. Jivkov (Gherardo Negro) • C. Cassel (Beatrice di Borgogna) • K. Smutniak (Eleonora) • A. Molina (Ildegard Von Bingen) • E. Bouryka (Antonia) • H. Shopov (Rainaldo di Dassel) • F. Martinelli (Tessa)
sceneggiatura: R. Martinelli • G. Schottler • A. Samueli
musiche: Pivio • A. De Scalzi
fotografia: F. Cianchetti
montaggio: O. Bargero
Trama: Campagna intorno a Milano, anno 1158. Un ragazzo salva fortunosamente la vita a uno sconosciuto cavaliere. Si chiama Alberto da Giussano, milanese e figlio di un fabbro, e non crede ai suoi occhi quando capisce che il guerriero imponente che ha di fronte è Federico I di Hohenstaufen, l’Imperatore. E’ il primo di una serie di fatali incontri tra due personaggi che per origini e condizione sociale non avrebbero mai potuto incontrarsi. Federico ha un sogno: la realizzazione dell’impero universale. E, insieme, un dubbio che lo tormenta: è davvero lui che Dio ha eletto per quella missione?
E lo so, prima o poi doveva accadere.
Dopo le trasmissioni faziose dei comunisti di Santoro, doveva arrivare, quanto meno al Cinema, la risposta, cinefila, della Lega.
Ed allora questo blog si è documentato. E tenterà di dare una visione oggettiva della questione.
Alla prima milanese del film è stata presente, infatti, ed in duplice veste, la Lega.
Sullo schermo c’era, infatti, quella Lombarda, costituitasi a Pontida nel 1167, e che il 29 maggio del 1176 sconfisse a Legnano, Federico I Hohenstaufen, imperatore del Sacro Romano Impero. (Ma tu guarda i corsi e i ricorsi storici, no?)
Nella platea del magnifico cortile dello Sforzesco, c’era la Lega di Bossi: il leader e poi senatori e ministri.
E c’erano il Presidente del Consiglio (si può scrivere Presidente del Consiglio senza essere denunciati … speriamo di si … incrociamo le dita), e c’era, anche, il sindaco di Milano.
Il regista Martinelli, ha fatto agire Alberto sul territorio, proponendo il film in cinquanta città del nord.
L’eroe milanese è diventato, di fatto, un membro del movimento, efficace e romantico, disponibile e attivo, proprio come un iscritto, anzi come titolare della tessera numero uno.
Il film sul territorio è, appunto, una sorta di apologia della Lega sul territorio: l’intuizione di Umberto Bossi che, fin dai primi anni Ottanta, cominciò a spendersi in prima persona, parlando, dibattendo o attaccando manifesti, nelle vie, nei bar, sui cavalcavia, nelle piazze dei comuni pedemontani della Lombardia.
Era l’idea del rapporto diretto, semplice e antico, senza i media di mezzo, del politico con la gente.
E certo sappiamo che l’idea ha funzionato.
Il film di Martinelli rappresenta un bel vettore di epica e di avventura, peraltro ammettiamolo, assolutamente dimenticati dal Cinema italiano, e costituisce un buon esempio valori (ops … che ho detto), di elementi fondanti della politica, peraltro in gran parte dimenticati, dall’attuale classe sia filo-governativa che non, contemporanea, ne converrete: l’abnegazione e l’eroismo.
Tuttavia in questo blog, ve ne sarete accorti, anche in un caso come questo, che potrebbe rappresentare, come dire, l’occasione più favorevole, non si scrive di politica ma di <cinema.
E come cinema … diciamo non più di 3 stars, …che non si sa mai. ;-)
analisi di eventi, esistenti e linguaggio audiovisivo
USA | 2008
Apologia del metalinguaggio cinematografico in salsa pseudo storica – a cura di Roberto Bernabò
Bastardi senza gloria
titolo originale: Inglorious Basterds
nazione: U.S.A.
anno: 2008
regia: Quentin Tarantino
genere: Azione
durata: 148 min.
distribuzione: Universal Pictures
cast: Bradd Pitt (Lt. Aldo Raine) • E. Roth (Sgt. Donnie Donowitz) • D. Kruger (Bridget von Hammersmark) • M. Laurent (Shosanna Dreyfus) • C. Waltz (Col. Hans Landa) • D. Bruhl (Frederick Zoller) • S. Levine (PFC Hirschberg)
sceneggiatura: Q. Tarantino
fotografia: R. Richardson
montaggio: S. Menke
Sinossi: Nei primi anni dell’occupazione tedesca in Francia, Shosanna Dreyfus assiste all’esecuzione della sua famiglia per mano del colonnello nazista Hans Landa. Shosanna risce miracolosamente a sfuggire alla morte e si rifugia a Parigi, dove assume una nuova identità e diviene proprietaria di una sala cinematografica. Altrove, in Europa, il tenente Aldo Raine addestra una squadra speciale di soldati ebrei. Noti al nemico come “I Bastardi”, i soldati entrano in contatto con l’attrice tedesca, agente sotto copèertur, Bridget Von Hammersmark. L’intento è quello di organizzare una missione che miri ad eliminare i leader del Terzo Reich. Anche Shosanna sta tramando la sua personale vendetta …
“Una voce chiara e sonora, inudibile per la vasta moltitudine” Wiliam Wordsworth
1. Inglorious Basterds – una pellicola cinéphile
Presentato al Festival del cinema di Cannes dove il lungometraggio, tenuto in gestazione per oltre dieci anni, con mille ripensamenti e cambiamenti alla trama, si è aggiudicato una Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile che è andata a Christoph Waltz alias il Colonnello tedesco Hans Landa ed una nomination per la Palma d’oro per il miglior regista andata al regista Quentin Tarantino credo che questo “Inglorious Basterds” rappresenti un po’, come dire, il capolavoro del regista che fonde, in un unico, tutta una serie di riferimenti ed inventa un nuovo genere di cinema, che si diverte a beffeggiare la storia, in maniera così raffinata e sofisticata, da meritarsi addirittura i plausi del Vaticano, pensate un po’.
In realtà “Bastardi senza gloria” (toh guarda, per una volta un titolo tradotto fedelmente), si pone e si propone come una pellicola per un pubblico cinéphile, tali e tante sono le riflessioni che spinge a fare.
Da quello della narrazione filmica e metafilmica, a quello della sapiente scelta degli attori (è noto, ad esempio, che pur non sapendo se Brad Pitt avesse accettato di fare il film, Tarantino ha costruito l’esistente protagonista il tenente Aldo Raine, pensando che sarebbe stato proprio tale attore ad interpretarlo), per dirne due.
§§§
2. Circa la narrazione filmica e mtalinguistica
Si dice, tradizionalmente, che gli eventi di una storia vengano trasformati in un intreccio dal discorso, cioè dal modo in cui sono presentati.
Sembra, solo apparentemente, una considerazione banale, eppure, credo che dentro questa frase ci sia il “succo” delle riflessioni formali e stilistiche di questo regista, che nel suo “specifico filmico” non fa altro, a mio modo di vedere, che porsi, direi quasi in maniera ossessiva, come si possa ragionare per adattare questo assunto in chiave filmica. E, lo devo proprio ammettere, ad ogni suo film rimango, come dire, folgorato dalle intuizioni e dai lampi di genio, con cui egli riesce ad affrontare ed a risolvere, brillantemente, tale questione, anche in storie ed in intrecci, così diverse/i tra loro.
Aggiungo che mai come in questo film, in particolare, è come se il regista avesse voluto raccontare, in chiave metaforica naturalmente, cosa significhi per lui il Cinema, inteso non solo come mezzo espressivo, ma, forse, sopratutto, come luogo dove accade la rappresentazione della narrazione, quasi a suggerirci che ciò che accade sullo schermo, non è più (o anche meno) importante, di quello che accade in sala. E forse, e sottolineo forse, è quasi come se, nei cruenti eventi che chiudono il film, egli immaginasse, simbolicamente, lo sconvolgimento che ogni opera dovrebbe scatenare, negli ignari spettatori, e chissà probabilmente anche nell’autore, ma qui siamo a mie personali supposizioni teoriche, che lasciano, per voi che leggete, un po’ il tempo che trovano. E che attengono alla ricerca di uno stile puro, assolutamente filmico, che questo regista più di altri, esprime.
Prendiamo, ad esempio, uno degli incipit con cui il luogo tenente Raine si presenta allo spettatore.
“Sono il tenente Aldo Raine e sto mettendo insieme una squadra speciale.
Mi servono otto soldati.
Ci faremo paracadutare in Francia vestiti da civili.
Faremo una sola cosa – uccideremo nazisti.”
Ora, lo capite anche voi, che questa frase è si un’ottima presentazione di quello che sta per accadere, ed in qualche modo anche dis-ancorabile dalla narrazione filmica (credo, infatti, che sarà utilizzata quale incipit del romanzo che dovrebbe essere già uscito in questi giorni edito da Bompiani), eppure ritengo che, nel contesto del film, funzioni assai bene sia per scaraventare gli esistenti nella loro avventura, e sia per incuriosire, direi quasi morbosamente, lo spettatore in sala.
Ecco, direi che il gioco di Quentin Tarantino non sia solo quello di trovare, e scovare, ed immaginare, storie assolutamente, come dire, “sopra le righe“, quello sarebbero capaci a farlo in tanti (forse), no, ma sia soprattutto quello di costruire, con spasmodica e mirabile ostinazione, il come questi eventi, che già hanno un enorme potenziale eversivo (pensiamo, anche ad esempio, al riguardo, alle donne stuntmen di Grindhouse – a prova di morte), debbano essere presentati allo spettatore, per diventare ancora più straordinari.
Pensiamo, anche, ad un altro elemento fondante di questa intenzione.
Il dialogo. O, ancora meglio, i dialoghi.
Mai, come al cinema, lo spettatore viene messo a parte, e riesce a comprendere gli eventi dell’intreccio narrativo, se non, prevalentemente, attraverso le parole che gli esistenti, in qualche modo, dichiarano.
Nulla è più rilevatore dell’intenzione di un personaggio, di quello che dirà, una volta ripreso dalla macchina da presa.
Se Raine, ad esempio, non anticipasse, esplicitamente, ed all’inizio della Storia, la sua intenzione, forse assisteremmo ad un altro film, non dico più o meno avvincente o bello, dico semplicemente diverso.
Tarantino, per riuscire a fare questo, gioca con almeno quattro elementi della narrazione filmica (aldilà delle questioni ontologiche tra narratore nascosto e narratore palese, e che pure sarebbero interessanti da affrontare, peraltro), a mio modo di vedere:
serrare i bit narrativi quando la cosa gli serve,
dilatarli quando deve invece fare crescere la suspance,
cambiare costantemente le carte in tavola nello svolgimento della storia, per impedire che lo spettatore immagini con precisione cosa accadrà nelle sequenze successive,
utilizzare il dialogo come principale forma di narrazione.
Un altro elemento con cui QT si diverte, e con cui si è particolarmente divertito con questo film, è, infine, il cosiddetto citazionismo.
Una pratica, cioè, attraverso la quale alcuni elementi formali di una determinata sequenza, chiamano in causa altre opere, afferenti spesso anche altre ontologie del cinema, di altri autori, al solo scopo di citarli (sia le sequenze, che gli autori), nel contesto della narrazione, in maniera spesso raffinata, quando cioè gli accadimenti di quella storia e di quell’intreccio, hanno, anche indirettamente, un qualche legame con “una situazione narrativa altra“, che è, appunto, quella citata. Anche Woody Allen, ad esempio, è un maestro in questo tipo di operazioni, direi quasi fino al plagio.
Le citazioni più evidenti ed esplicite, anche sonore, sono rivolte, nel caso di specie, al cinema italiano, ed a quello di Sergio Leone, in particolare, ma vi potrete divertire a trovarne infinite altre, perché Quentin Tarantino usa questa pratica, ed è evidente, non perché ami il suo cinema, ma perché ama il cinema in generale, ed è questa una delle chiavi che mi fanno particolarmente amare questo assolutamente geniale regista.
§§§
3. Gli aspetti inerenti la struttura narrativa di QT
Spesso Quentin Tarantino viene identificato come un regista pulp, o splatter.
La definizione, soprattutto inquadrando la sua ultima produzione, è sicuramente inadeguata ed incompleta.
Il genera pulp basa, infatti, tutto il suo potere evocativo nelle scene in cui assistiamo a quella che, secondo alcuni, potrebbe arrivare alle vette della cosiddetta “estetica delle violenza“.
E non vi è dubbio che Tarantino, con film come “Kill Bill“, abbia contribuito, con pagine notevoli, a mio avviso, allo sviluppo di questa particolare prospettiva del genere.
Ma secondo me Tarantino è molto di più.
E’ come se egli pensasse alla storia direttamente in chiave filmica.
Cioè la sua storia è una storia filmica e basta.
Non si può raccontare un film come “Bastardi senza gloria“.
Non avrebbe alcun senso, anche se questo racconto è, a guardare bene:
certo diviso in capitoli,
certo con dei personaggi protagonisti in rapporto antagonistico (e che rapporto ragazzi),
certo con uno sviluppo del conflitto agito in tutte le possibili dimensioni:
da quella valoriale / etica,
a quella ideologica,
a quella razziale,
a quella culturale,
e persino a quella sociale;
un classico rispetto ai temi ossessivi del regista, già sviscerati, peraltro, in altre sue opere (come, ad esempio: il rapporto della vittima che diventa carnefice).
etc., etc., etc.
Insomma, tutto, nella costruzione di quest’opera, è, e dobbiamo proprio riconoscerlo, saldamente ancorato ai dettami della struttura narrativa, tanto è vero che da questo racconto è stato tratto, anche, un romanzo. Quasi a sconfessare questa mia ipotesi di analisi.
Eppure.
Eppure io credo che con “Bastardi senza gloria” è come se Quentin ci avesse consegnato una sorta di Lectio Magistralis del suo personalissimo modo di vedere la questione “Cinema“.
Non è più, quanto meno non solo, la violenza l’unico fulcro del film.
Ma è l’idea di toccare un materiale sacro come la Storia per riscriverla.
E’ l’idea di costringere lo spettatore ad essere attivo nel decriptare il senso e le intenzioni degli eventi, a farsi parte integrante e partecipe, dell’idea folle che questo film porta avanti, a cercare d’immaginare il prossimo bit narrativo senza mai riuscire a capire cosa abbiano in testa, realmente, i personaggi del film.
E’ l’idea di raccontare un’intera storia di 148 minuti per partire dal Cinema ed arrivare in un Cinema.
Insomma Quentin non immagina un film come forma di espressione solamente, egli ha in mente un’opera cinematografica in cui la storia debba, irrinunciabilmente, includere, anche, l’effetto che sullo spettatore farà, l’atto di assistere a quella storia.
Non che la cosa sia innovativa in se, intendiamoci, è semmai innovativo – quasi come se questa fosse l’ossessione delle ossessioni di questo autore – il modo in cui Tarantino risolve questo aspetto.
In questo senso, ritengo di poter affermare, che Tarantino debba essere, ormai, consegnato di diritto alla Storia del Cinema, in quanto narratore assolutamente innovativo, iper-creativo ed in-catalogabile.
Potremo solo dire non più (solo) un thriller, non più (solo) un film d’azione, non più (solo) un pulp serratissimo e ricco di suspance, ma, assai più semplicemente, un film alla maniera di Quentin Taranatino in “Bastardi senza gloria“.
Un film percettivamente interattivo, insomma, dove la storia si narra, solo e completamente, se lo spettatore si estasia.
E noi, alla proiezione in lingua originale con sottotitoli in italiano, esperienza che consiglierei a tutti dato il fatto che i personaggi parlano tutti nella loro madre lingua (Tedesco, Inglese, Francese e pesino Italiano), dobbiamo ammettere che ci siamo estasiati.
§§§
4. Certo dovrei parlarvi
Ah, la questione non dovrebbe certo chiudersi qui.
Questo post, però, dovrebbe davvero diventare chilometrico, per esaurirla tutta.
Ma mi basterà accennare, elencandoli non certo per ordine d’importanza, a tutti gli altri motivi di pregio, per i quali quest’opera, sia disgiuntamente che congiuntamente considerandoli, andrebbe assolutamente vista in sala, quanto meno questo è il mio caloroso consiglio:
l’assoluta originalità del soggetto
la cura maniacale del casting internazionale, in quanto lo stesso è stato curato, in funzione dei personaggi dell’intreccio, direttamente nei luoghi originali delle ambientazioni della storia (Francia, USA e Germania), cito al riguardo, alcuni attori del film per farvi comprendere:
Bradd Pitt – americano
Diane Kruger – tedesca
Daniel Brühl – tedesco
Gedeon Burkhard – tedesco
Eli Roth – americano
Mélanie Laurent – francese
Michael Fassbender – americano
Christoph Waltz – austriaco
etc.
la preparazione della troupe, ed in particolare:
la bravura della costumista Anna Sheppard
quella del coreografo David Wasco
quella degli effetti speciali di Greg Nicotero
la fedeltà delle location
la cittadina tedesca di Bad Schandau e gli interni della Lapadite Farm, e la collaborazione con lo studio Babelsberg (Il Pianista, Il falsario, The reader – a voce alta)
Berlino
Parigi
la sua durata(148 minuti)
l’innovativa metalinguistica riflessione (per il modo in cui viene proposta, ancora una volta, alla Tarantino), sul Cinema.
§§§
5. Epilogo
Chiudo questo post con alcune citazioni, che mi sembrano importanti per comprendere il senso di questa opera.
“C’era una volta nella Germania dei nazisti” …”ovviamente non è un documentario …“, ha affermato Diane Kruger, “Il film parla di un gruppo di ribelli che decide di prendersi una rivincita. Lo adoro“.
“E’ un film in perfetto stile Quentin Tarantino sugli stereodi e sulla velocità“, ha affermato E.Roth, parlando in tono concitato, “Pur essendo ambientato nella seconda Guerra Mondiale, non è un film sula seconda Guerra mondiale, è veloce, emozionante, intenso, pieno di pulpiti e di tensione, di sparatorie, di quelle scene di violenza che ti aspetti in un film di Quentin Tarantino, dove, tuttavia, la Storia, viene trattata in modo del tutto originale“.
Insomma, se non lo aveste ancora capito, “Bastardi senza gloria” è un film-vendetta, dove si parla dello spirito della Vendetta e di Cinema.
“Ho sempre considerato i film di Quentin romantici“, ha affermato B.J. Novak, “questo lo è in modo particolare. E’ la storia più romantica che abbia mai scritto Quentin, dove il Cinema assume il ruolo di salvatore del mondo. E’ la storia di un’idea molto romantica. Romantica e brillante“.
La parte che, ovviamente, Quentin Tarantino ha amato di più?
“Mi piace il fatto che sia la forza del cinema a combattere i nazisti“, ha affermato il regista, “E non solo in senso metaforico ma come realtà assoluta“.
§§§
Un sogno, lo dobbiamo ammettere, davvero affascinante, tanto quanto la sua utopistica ambizione, ma cos’altro sarebbe, il Cinema, senza questo desiderio ardente di proporre un mondo migliore?
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Dei tanti posti che potevano essere scelti dal regista, per ambientare la sua immaginifica riscrittura della Storia, raccontando un attentato a Adolf Hitler, ovviamente Quentin Tarantino poteva scegliere un solo luogo possibile: un cinema.
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